La Consulta boccia il referendum sul proporzionale. Il cane si morde la coda e sottrae al giudizio del popolo la materia elettorale.

Dovremo aspettare il 10 febbraio per il deposito delle motivazione della sentenza della Corte Costituzionale che dichiara inammissibile il referendum per la abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale, fino ad allora possiamo fare solo  riferimento alla nota dell’ufficio stampa della Corte che anticipa il dispositivo: inammissibile per eccessiva manipolatività.

Andiamo con ordine e per tentare di comprendere appieno cosa è accaduto in questi giorni occorrerà solo po’ di pazienza per districarsi tra le norme e la capziosità del ragionamento giuridico.

Ebbene, la lega, per il tramite del senatore Calderoli, a fine settembre scorso depositava la proposta di un quesito referendario sottoscritta da otto consigli regionali delle regioni governate dal centrodestra: Veneto, Piemonte, Liguria, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Sardegna e Basilicata.

Nel quesito si chiedeva che il popolo si pronunciasse sull’abolizione della quota proporzionale per l’attribuzione dei seggi di camera e senato, in modo da costruire un sistema elettorale integralmente basato sul metodo maggioritario, con l’attribuzione dei seggi tramite competizione elettorale su singoli collegi uninominali.

Bisogna ricordare che la costante giurisprudenza della Corte Costituzionale impone che, affinché il quesito referendario sia ammissibile, la “normativa di risulta”, ossia, la normativa che emerge al momento dell’abrogazione eventuale della legge sottoposta al referendum, sia autoapplicativa.

In buona sostanza, atteso che il referendum è un istituto abrogativo, ossia può servire solo per eliminare dall’ordinamento la norma, la disciplina che resta in vigore deve poter essere autosuffciente per l’applicazione, senza che intervenga nuovamente il legislatore per riempire eventuali vuoti.

Dunque, data l’esistenza del principio di autoapplicatività, il quesito per l’abrogazione della quota proporzionale dalla attuale legge elettorale, ha dovuto fare i conti con la Legge Delega n. 51/2019, che ha dato mandato al Governo, in ragione della norma che ha dimezzato i parlamentari, di ridisegnare i collegi elettorali.

E così il quesito referendario ha toccato anche quella norma, perché altrimenti la normativa di risulta non sarebbe potuta essere immediatamente applicabile.

Ma la Corte, in ragione del quesito esteso anche alla Legge delega n.. 51/2019 ha ritenuto eccessivamente manipolativo il quesito, dichiarandolo così inammissibile.

Il cane si è morso la coda.

Sulla legge elettorale, dunque, il popolo non potrà mai intervenire, perché se venisse posto un quesito non manipolativo sarebbe inammissibile per mancanza di autoapplicabilità, così l’inverso: in quanto autoapplicabile è stato dichiarato inammissibile perché manipolativo.

E’ frustrante e sembra quasi che si sia arrivati all’assurdo dei giochi di parole pur di rispondere alle esigenze di conservazione dello status quo.

Ma v’è di più, data la proposta del movimento 5 stelle di tornare ad un proporzionale puro, peraltro con liste bloccate e senza le preferenze, come ha segnalato Giorgia Meloni si nota il malcelato intento di restaurare la prima Repubblica, senza però la caratura politica e le strutture di partito della prima Repubblica.

Mentre attendiamo con ansia le motivazioni che speriamo chiariscano la ratio alla base della decisione del Giudice delle Leggi, al momento sovviene solo la surreale gag: Ndo vai? Al cinema.  A vede che? Quo vadis. E che vor dì? Ndo vai? Al cinema, A vede che? … ad libitum.

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