Negli ultimi anni, anche a seguito delle note vicende di banche risolte e risparmiatori azzerati, la raccolta delle banche italiane è diminuita sensibilmente a conferma della crisi di fiducia diffusasi tra i risparmiatori italiani a seguito di questa tempesta finanziaria, che ha dimezzati titoli bancari in borsa.
Nello stesso lasso di tempo sono lievitati i depositi di risparmi presso gli sportelli di Poste Italiane. Il +6,5% segnato dalla raccolta postale nei primi sei mesi dell’anno a oltre 250 miliardi confermerebbe la tendenza in atto tra gli italiani, ovvero di allentare il rapporto con le banche e di tornare ad affidarsi ai quasi 14.000 uffici di Poste Italiane, considerate molto più sicure, essendo controllate ancora al 65% dallo stato.
Ma è davvero così? In genere, è il piccolo risparmiatore ad affidare il suo denaro agli uffici postali, ma paradossalmente non sono in tanti a sapere che Poste non aderisce al Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che garantisce i conti bancari fino a 100.000 euro, sel resto non è una banca.. Vero è che la società ha accantonato capitale per un miliardo di euro, al quale si aggiungono altri 400 milioni del Tesoro, che verrebbero impiegati nel caso di bisogno per tutelare i clienti, ma a fronte di più di 250 miliardi di raccolta, sarebbero un nonnulla.
Tuttavia, va fatta una precisazione. Poste Italiane non è un operatore del credito nel senso classico del termine. Essa si limita a raccogliere denaro tra la clientela e a farlo investire o da altre banche o fondi o dalla Cassa depositi e prestiti. Quest’ultima, ad esempio, una “longa manus” dello stato, garantisce per i libretti postali e i Buoni fruttiferi, i quali possono, pertanto, essere considerati sicuri quanto i titoli di stato.
Del resto, Poste Italiane, non essendo formalmente una banca e avendo come azionista di riferimento il Tesoro, è esclusa dalla nuova disciplina sui salvataggi bancari, nota come bail-in. Ciò implica, che quand’anche il buffer di capitale posseduto risultasse insufficiente per coprire i depositi dei clienti, lo stato-azionista potrebbe sempre intervenire per salvaguardare i conti postali. D’altra parte, non essendo sottoposta alla vigilanza della BCE, la trasparenza dei conti della società potrebbe essere inferiore a quella delle vituperate banche. Ricordiamoci che i bilanci di Poste si tengono da anni in piedi solo per il business di BancoPosta, non certo per la spedizione di lettere e pacchi.
Da qui l’anomalia di una società forse senza eguali nel mondo: è una mezza banca, che pur non dovendo seguire le regole a cui sono costrette a soggiacere gli istituti di credito, può comunque offrire prodotti di investimento finanziario.
Ma davvero chi sottoscrive buoni fruttiferi postali non corre alcun rischio?
In realtà occorre tenere gli occhi bene aperti. La Corte di Cassazione ha recentemente stabilito che per i Buoni sottoscritti prima della legge del 1999 basta un decreto ministeriale perché il rendimento cambi, anche in modo retroattivo. E senza che l’investitore venga informato.
Cattive notizie quindi per chi ha investito in Buoni fruttiferi postali prima del 1999. Lo Stato infatti con questo provvedimento dell’11 febbraio, emesso dalle Sezioni Unite della Cassazione potrà cambiare le regole del gioco in corsa, anche in modo retroattivo. Giusto o ingiusto che sia, è una condotta che la Cassazione ha appena legittimato con una sentenza.
I cittadini che sottoscrivono i Buoni fruttiferi postali dovrebbero quindi tenere gli occhi bene aperti. Anche perché le Poste, secondo la Corte, non sono obbligate a fargli firmare un’informativa che spieghi in modo preciso dettagli e rischi dell’operazione (compreso il fatto che il tasso d’interesse potrebbe variare in modo retroattivo), ma sarà sufficiente la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale delle norme che disciplinano la collocazione dei Buoni.
Insomma… non c’è pace per chi vuole tutelare i propri risparmi!