Nelle numerose discussioni che riguardano i futuri assetti del centro-destra emergono tante idee, spunti e proposte che si rifanno a termini quali liberismo, conservatorismo o a nomi come Margaret Thatcher, tanto che si è parlato persino di “liberismo nazionale”. Ma pensare che si possa salvare l’Italia da una fine annunciata senza lo Stato, la programmazione e il senso comunitario (i diritti al posto dell’individualismo come insegnava Mazzini) è un’idea miope. Il liberismo oggi assume il volto di delle multinazionali e dei fondi speculativi che chiudono le aziende italiane Gkn, Timken o Giannetti Ruote: centinaia di lavoratori messi alla porta dalla mattina alla sera in nome del mercato. Ecco che si andrà a produrre in Nazioni dove i salari e le tutele saranno più bassi, ecco che pensare a un “liberismo nazionale” diventa utopia. Il mercato e istituzioni inclusive hanno spesso favorito innovazioni e progressi economici, ma ciò non toglie che senza lo Stato e politiche industriali di lungo respiro le collettività vengono fagocitate dalle grandi potenze e spariscono dalla storia. Andiamo a chiedere a Cina o Stati Uniti se sono disposti a rinunciare ai loro asset strategici.
Si tratta di una lezione che risale a più di due secoli fa, quando Friedrich List, studiando il dominio britannico globale, parlò del liberismo quale “arma” per impedire lo sviluppo di eccellenze industriali pubbliche (stimolate e protette dallo Stato) da parte dei concorrenti internazionali. Un’analisi che sarà ripresa da Enrico Corradini, che parlò della “lotta di classe internazionale” tra Nazioni, e più recentemente dallo studioso argentino Marcelo Gullo, il quale ha scritto: «Tutte le nazioni sviluppate sono arrivate a esserlo rinnegando alcuni dei principi fondamentali del liberalismo economico, soprattutto rinnegando l’applicazione del libero commercio, cioè applicando un forte protezionismo economico; tuttavia oggi consigliano ai paesi in via di sviluppo o ai paesi sottosviluppati di seguire rigidamente una politica economica ultraliberale e di libero commercio per arrivare al successo.
Tutti i processi di sviluppo riusciti sono stati il risultato di un’insubordinazione fondante, e cioè il risultato di una conveniente coniugazione di un atteggiamento di insubordinazione ideologica verso il pensiero dominante (insubordinazione che rompe il primo anello della catena che lega tutti gli Stati al sottosviluppo e alla dipendenza) e di un efficace impulso statale che provoca la reazione a catena di tutte le risorse in forza nel territorio dello Stato. D’altra parte, è importante rilevare che, in maggior o minor misura, tutti i paesi sviluppati – iniziando dagli Stati Uniti – una volta ottenuto l’accesso al club esclusivo dei paesi industrializzati (e cioè alla struttura egemonica del potere mondiale), si sono convertiti in ferventi sostenitori dei benefici del libero commercio e del non-intervento dello Stato nell’economia. Non è ovviamente la cattiveria delle élite dirigente che porta questi paesi a comportarsi così, bensì la natura stessa del sistema internazionale che fa sì che ogni Stato tenda ad evitare sempre, nei limiti delle proprie possibilità, l’apparizione di possibili concorrenti».
Mattei, Olivetti e l’Iri. Un po’ di storia
Se avesse obbedito al dogma del libero mercato, d’altronde, Enrico Mattei non avrebbe consegnato all’Italia l’Eni, con il quale metanizzò l’Italia divenendo un modello sociale a livello mondiale ancor oggi centrale per la nostra economia, scavalcando i giganti del petrolio e pagando con la vita la sua intraprendenza (ecco la “lotta di classe internazionale”). Sono gli anni della Olivetti che sforna il primo computer europeo e disegna un’impresa che punta sulla cultura e sul territori contro ogni visione liberista dell’economia e dell’esistenza. Sono gli anni dell’Italia vertice sul piano nucleare e chimico con Ippolito e Marotta.
Il ruolo dello Stato diventa centrale con la programmazione economica e il piano-Casa di Fanfani e soprattutto con il ruolo dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente studiato in tutto il mondo. Il cosiddetto “sistema misto” tricolore mostrerà con l’andare del tempo i limiti del tempo e dell’uso della spesa pubblica a fini di consenso, ma rimase nondimeno lo strumento con cui l’Italia fu in grado di competere sul piano internazionale sviluppando i suoi settori strategici. Quando si è posto fine a tutto questo, la Nazione è andata a picco, come dimostrano i dati degli ultimi trent’anni relativi ai salari e allo sviluppo in relazione ai partner europei. Singolare che proprio Draghi («un vile affarista» disse Cossiga) sia stato il protagonista della stagione delle privatizzazioni che negli anni ‘90 gettarono “il bambino con l’acqua sporca”, disgregando il settore bancario fino a quelli della chimica e delle telecomunicazioni.
Aver distrutto tutto questo ci impedisce oggi di “cavalcare” adeguatamente le sfide del nostro tempo e di impostare politiche economiche di lungo respiro che sole danno futuro e forma alle entità statuali, ed ecco che le transizioni ecologica e digitale saranno “cavalcate” dalle multinazionali cinesi e americane che animano il “capitalismo della sorveglianza” descritto dalla Zuboff. Le conseguenze per il tessuto sociale italiano, lo sviluppo interno e i territori rischiano di essere esiziali.
Si riparta dalla Destra sociale
Il ritorno dell’Industria nazionale andrebbe messo all’ordine del giorno. Persino Biden, in un documento americano firmato dai dipartimenti Commercio, Energia, Difesa e Salute del febbraio scorso, si è accorto dei limiti della globalizzazione odierna: «dobbiamo premere per una serie di misure – tasse, tutele del lavoro, standard ambientali – che aiutino a plasmare la globalizzazione per garantire che funzioni per gli americani come lavoratori e come famiglie, non semplicemente come consumatori».
Per uscire vivi dal Pnrr, in Italia le filiere produttive nazionali e i distretti industriali andranno potenziati e resi protagonisti dei cambiamenti in atto, sul piano della produzione e non solo del consumo, mentre il ritorno delle aziende in patria (cosiddetto re-shoring) è un passaggio obbligato. Lo Stato italiano dovrà tornare a fare formazione sull’esempio dei migliori momenti dell’Iri, mettendo inoltre “a sistema” tutte le aziende a partecipazione pubblica. Le competenze e l’economia reale andranno coinvolte nella politica, ad esempio ripensando e valorizzando il Cnel in opposizione alle task force e alle cabine di regia di questi tempi, lontane da qualsiasi trasparenza. In ultimo, la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese (art. 46 della Costituzione), processo di maturazione dei singoli e olivettiana valorizzazione delle competenze e dei territori, si fa sempre più necessaria, tanto per la crescita e il coinvolgimento dei lavoratori nell’innovazione, quanto per evitare vergognose delocalizzazione o chiusure improvvise. E per combattere la finanziarizzazione dell’economia che ha inciso drammaticamente nell’essenza delle imprese, dei territori e dell’uomo.
Patriottismo, interclassismo, partecipazione, centralità del lavoro, programmazione impegnativa e concertata pubblico-privato, coinvolgimento politico delle categorie: siamo di fronte a tutti i temi che furono le stelle polari di quella destra sociale che oggi dovrebbe e potrebbe tornare d’attualità. Giano Accame e la sfida alla finanza, Ernesto Massi e la “Nazione sociale”, Gaetano Rasi e le idee di riforma strutturale del sistema in nome del lavoro sono i nomi che per primi meriterebbero di essere posti al centro del dibattito.
Altro che i modelli esteri e il liberismo della Thatcher.
Sta succedendo anche in campo agricolo. Molte nostre eccellenze stanno e/o sono passate in mano a gruppi internazionali. Attualmente in Toscana, molte rinomate e blasonate aziende finiscono in mano a fondi sovrani (Russi soprattutto) e/o società Americane. Solo le banche (MPS in primis) vedono di buon occhio tutto questo, con la sinistra che governa questa regione da troppi decenni, che neanche troppo malcelatamente, gioisce. L’imprenditore/latifondista e capitalista ,in cuor loro deve sparire e ben vengano realtà esterne che senza radicamento alcuno,strvolgono paesaggio,usi, e tradizioni millenarie.
fare una legge anti monopoli. Per esempio nel settore dei social abbiamo google, facebook, istagram, twitter che hanno praticamente il controllo totale del mercato. Bisogna fare una legge metta il vincolo del controllo, per esempio dell’uno, per ogni tipo di mercato. Anche nel sistema bancario esiste un forte monopolio in quanto le banche sono molte collegate tre la attraverso scambi azionari.
Tornare al libero mercato in libero stato, basato su un gran numero di piccole e medie imprese.