Come recita una cattiva abitudine ormai dilagante, il giorno dopo ogni elezione che si rispetti il dato sembra essere: «Tutti vincitori». È successo, ovviamente, anche con la tornata di Regionali che ieri hanno interessato circa 18 milioni di italiani.
L’elemento grottesco, enfatizzato dai retroscenisti e dai titoloni dei giornali dell’establishment, riguarda i “festeggiamenti” di Giuseppe Conte (caso di scuola di un premier per tutte le stagioni, senza partito e senza consenso) per la tenuta delle due Regioni dove i governatori uscenti del Pd hanno preso di mira, spesso e volentieri, proprio il governo giallo-fucsia e il loro partito di riferimento. Esatto, il Pd. Partito il cui segretario, Nicola Zingaretti, gonfia il petto cantando vittoria dopo aver perso tragicamente un feudo storico e simbolico come le Marche e aver confermato Toscana a Puglia con due candidati (De Luca ed Emiliano) che lui stesso intendeva sacrificare sull’altare del patto con i 5 Stelle.
Conte e Zingaretti, insomma, godono per risultati del tutto estranei sia alla loro perfomance che alla linea su cui intendono procedere da qui in avanti. E allora perché esultato? Semplice: tirano un sospiro di sollievo per aver salvato in realtà la propria poltrona – rispettivamente di premier e di segretario –, e poco importa dal loro lato, a maggior ragione dopo la vittoria del Sì al referendum, che in questo modo venga esasperato ancora di più lo “spread” fra rappresentanza legale e volontà popolare in Italia.
Che cosa dicono, invece, queste elezioni Regionali? Che, è vero, resistono i governatori “eterodossi” di centrosinistra: dopati però dalla gestione Covid ma soprattutto sospinti da campagne martellanti contro il «pericolo sovranista» o da logiche clientalari di una gravità inaudita. È vero, eccome, che vincono i governatori di centrodestra grazie soprattutto alle politiche attive di governo: Toti con il “modello Genova” e Zaia con il “modello Veneto”.
Ma ad affermarsi come novità, invece, è l’unica conquista, l’unico strappo politico di questa tornata: la vittoria di Francesco Acquaroli, voluto fortemente da Fratelli d’Italia, nelle Marche. Regione simbolo della manifattura del Centro Italia, sottratta al monopolio del centrosinistra dopo ben ventinque anni.
Il segreto di questa affermazione?
Da una parte la scelta precisa di Giorgia Meloni nei confronti di un candidato espressione di un percorso organico nell’amministrazione (da sindaco di Potenza Picena al consiglio regionale, da qui al Parlamento per poi affrontare la sfida più importante: quella da governatore) e di una formazione politica tutta inserita nella cifra della generazione Atreju.
Dall’altra, una seconda gamba ormai robusta quasi quanto la prima: la crescita esponenziale di FdI, da ieri ufficialmente terzo partito della Nazione, con il sorpasso conclamato nei confronti dei 5 Stelle (a conferma di tutte le rilevazioni degli ultimi mesi) nonché secondo partito del centrodestra con un distacco ormai molto ridotto nei confronti della Lega.
Lo ha affermato Giorgia Meloni, arrivando ieri sera ad Ancora proprio per festeggiare l’impresa marchigiana: FdI è l’unico soggetto che è cresciuto in tutte le regioni al voto, sia rispetto alle Regionali del 2015 che in confronto alle elezioni Europee dell’anno scorso.
Lo è, e questo è il dato saliente, su scala nazionale, anche dove non ha espresso candidati: terzo partito in Veneto, Liguria, Toscana e poi Marche, quarto partito in Campania e secondo, infine, in Puglia (dove assieme alla lista a sostegno del governatore ha ottenuto addirittura il 20%).
Un’affermazione penetrante nel Nord produttivo e nel Centro Italia, quindi, ma che riesce a pescare anche in quella vasta area del Meridione dove Meloni & co hanno ripreso una direttrice storica per la destra italiana: essere stato primo partito in entrambe le regioni meridionali al voto, davanti alla Lega che godeva anche lì dell’exploit delle Europee. Di fatto FdI oggi è il primo soggetto del centrodestra nel Sud Italia.
Guarda caso proprio lì dove il M5S, non riuscendo a raggiungere nemmeno la doppia cifra (come in nessuna altra delle Regioni al voto), ha ufficializzato il fallimento della propria scommessa politica e dell’investimento sociale, crollando miseramente rispetto a qualsiasi altra elezione precedente.
Un vuoto politico che apre a una richiesta di interlocuzione rispetto alla quale il Pd “nazionale” non riesce ad esercitare alcun ruolo e che presto richiederà interpreti ben più solidi di De Luca ed Emiliano, nient’altro che “sovranisti occasionali”…