Il vero peccato originale del 25 aprile è che in Italia non si è mai voluto davvero festeggiare la Resistenza per ciò che è stata: un moto di liberazione dal nazifascismo grazie al sacrificio di uomini e donne coraggiosi e all’intervento decisivo degli Alleati. No, quel giorno è stato sempre usato per altro. È stato manipolato, distorto, reinterpretato in base alle esigenze contingenti della sinistra, che ne ha fatto uno strumento di potere e delegittimazione dell’avversario politico.
Subito dopo la guerra, la Resistenza è stata incatenata all’ideologia comunista e trasformata in un omaggio implicito – talvolta esplicito – all’Unione Sovietica e a “Baffone” Stalin, come se la liberazione dell’Italia dovesse essere il preludio a un cambio di regime, dal fascismo al comunismo. Non una festa nazionale, ma l’inizio di un progetto politico.
Negli anni successivi, è diventato l’espediente per inventarsi il cosiddetto “arco costituzionale”. Poi, arrivarono gli anni Settanta, e con essi l’antifascismo militante. Una stagione drammatica, segnata da scontri di piazza, vendette ideologiche, terrorismo. Decine e decine di morti, da una parte e dall’altra, in nome di una logica dell’odio che ha travolto giovani vite e marchiato a fuoco un’intera generazione. Quell’antifascismo militante, che affondava le sue radici nella giustificazione morale del “colpire il fascista”, è purtroppo ancora oggi uno dei collanti identitari della sinistra più radicale. Una retorica imbevuta di odio, che arriva al punto di sostenere apertamente l’idea mostruosa che “uccidere un fascista non sia un reato”.
È in virtù di questa logica aberrante che una figura come Ilaria Salis, condannata per violenze a sfondo politico, è stata portata a suon di preferenze nel Parlamento europeo. E questo dovrebbe far riflettere, tutti.
Negli anni Ottanta, quelli della Milano da bere, il 25 aprile sembrava essersi trasformato in una commemorazione svuotata, quasi folcloristica ma, con l’arrivo di Berlusconi sulla scena politica, ecco il nuovo nemico da combattere: il berlusconismo. La Resistenza diventava, ancora una volta, resistenza all’uomo nero del momento. Nasceva così una letteratura, una carriera per molti professionisti dell’antiberlusconismo, che hanno costruito le loro fortune dipingendo Berlusconi come un pericolo per la democrazia.
Ma l’odio, quando viene alimentato a lungo, finisce per produrre violenza. Lo abbiamo visto in maniera brutale il 13 dicembre 2009, quando Berlusconi, allora Presidente del Consiglio, fu colpito in pieno volto da uno squilibrato con una statuetta del Duomo. Una vera e propria aggressione fisica, applaudita o minimizzata da chi da anni aveva trasformato la sua figura in un bersaglio politico e mediatico. Altro che “clima di odio”: quello fu un gesto concreto, simbolico, che rappresentò il culmine di una campagna di delegittimazione sistematica.
Oggi, la storia si ripete. È il tempo della resistenza contro i “populisti”, contro i “nuovi fascisti” che per loro sono sempre dietro l’angolo. Giorgia Meloni, nata nel 1977, viene dipinta come la reincarnazione del regime, mentre Donald Trump viene artatamente descritto come un pericolo mondiale. Eppure, durante la campagna elettorale hanno provato ad ammazzarlo due volte, in altrettanti attentati. E questo basterebbe per far comprendere quanto il clima d’odio sia reale, concreto, violento.
In tutto questo, la sinistra ha continuato ad infarcire il 25 aprile con i suoi nuovi dettami ideologici. Bandiere palestinesi, wokismo, gender, cancel culture: è diventato il festival dell’identità liquida e dell’ipocrisia. Hanno sostituito i diritti dei più fragili con la propaganda globale delle élite, contribuendo allo smantellamento della classe media, favorendo la delocalizzazione delle imprese in Cina – guarda caso, un regime comunista che non smettono mai di coccolare – e hanno pensato di rimpiazzare tutto questo con un’ideologia fatta di slogan e utopie disumanizzanti.
Il 25 aprile viene atteso con così tanta enfasi solo perché, di fatto, è uno degli ultimi strumenti che la sinistra ha per autolegittimarsi agli occhi di un popolo che non la riconosce più. È una sinistra che si è svuotata di senso, che non difende più il lavoro, non difende più i deboli, non difende più nemmeno la libertà. Vive aggrappata a un antifascismo fuori tempo massimo, perché ha perso tutto il resto: identità, visione, credibilità.
Eppure, se vogliamo essere sinceri, dobbiamo ammettere che la storia d’Italia è fatta non solo di nonni partigiani comunisti che credevano in Stalin, ma anche nonni che credevano in Mussolini e, ancora, di nonni che non credevano in nessuno dei due. È storia, piaccia o no. Vent’anni di regime fascista non si cancellano, sono parte della nostra identità nazionale e familiare. Non esiste una famiglia italiana che non abbia un ricordo, un legame, una traccia di quel periodo. E no, non si tratta di glorificare un passato sbagliato, ma di riconoscerlo come parte della nostra storia complessa e stratificata.
La storia non si cancella. Si studia, si comprende, si elabora. Tentare di rimuoverla è contro natura. Così come è contro natura voler sopprimere la famiglia, l’identità, le radici, tutto ciò che ci definisce. La lezione vera non è ripudiare ciò che siamo stati, ma imparare dagli errori – anche tragici – del passato. E non usarli come clava per zittire l’avversario di oggi.
La storia è storia. Punto. Non è uno strumento da usare per legittimare se stessi quando non si ha più nulla da dire. Non si può continuare a trattare chi non si allinea al pensiero unico come un nemico da eliminare. È un gioco vecchio e, soprattutto, pericoloso.