La politica e la vittoria, il desiderio del trionfo, sempre e a tutti i costi. Sembrerebbe un motto, uno slogan, in grado di sopravvivere nei secoli. La politica quale espressione della classe dominante, ma anche degli accordi, della pratica burocratica della conta dei numeri. Conti, insomma, se i conti tornano, nell’urna elettorale, ovviamente.
La responsabilità, espressione bellissima e nobile, si riduce altrimenti ad assunzione di precise competenze gestionali, governative e amministrative, obliando le antiche amicizie e alleanze, la fedeltà a un cammino condiviso e a una storia. Non c’è posto alla tavola imbandita per l’amico di una vita, per dirla in rima.
E se provassimo a mutare paradigma, ad abbracciare uno sguardo differente, a optare per la faticosa opera del convincimento personale? La politica vince sempre e comunque solo se in grado di convincere, di dire di sé con autenticità e veridicità, se sceglie di abbracciare il rischio dell’insignificanza numerica pur di non gettare alle ortiche il proprio bagaglio di valori e idee.
La minoranza non è la parte sconfitta della tornata elettorale, ma quella riserva, quel pungolo, quella roccaforte a cui viene affidato il compito, preziosissimo e irrinunciabile in una democrazia, di dare voce a istanze differenti, di sollevare dubbi e perplessità, di frenare automatismi decisionali, spesso acritici e ben poco ponderati.
La fedeltà a se stessi non si baratta, la coerenza intellettuale non si umilia, la memoria del cammino compiuto non si dimentica. O almeno così dovrebbe essere…