Negli ultimi anni l’Unione Europea ha vissuto un paradosso che, per molti versi, rappresenta un punto di svolta nella sua storia economica.
I Paesi un tempo etichettati come “PIIGS” — Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna — sembrano aver retto meglio alle recenti turbolenze economiche rispetto alle economie tradizionalmente forti del Nord, come Germania e Olanda.
Una simile inversione di tendenza non è frutto del caso, ma della natura dell’inflazione che ha colpito l’Europa dopo il 2021.
Questa non è stata la classica inflazione “da domanda” o “finanziaria” legata all’espansione della moneta o ai cicli di credito, ma una inflazione reale, originata da fattori fisici: energia, logistica, materie prime, guerra.
In altre parole, una crisi che ha messo alla prova non la finanza, ma la sostanza delle economie.
Ed è proprio qui che si manifesta il problema di fondo: l’architettura europea è stata costruita per gestire la moneta, non la realtà.
Una costruzione istituzionale perfetta per reagire ai movimenti dei mercati, ma non per garantire stabilità ai sistemi produttivi.
I pilastri economici dei Trattati europei
Per comprendere perché l’Unione reagisca male agli shock reali, bisogna tornare alle sue fondamenta.
I Trattati di Maastricht (1992) e di Lisbona (2007) hanno fissato i principi cardine dell’Unione Economica e Monetaria.
Da essi derivano tre pilastri fondamentali:
La stabilità dei prezzi, come obiettivo primario e vincolante della Banca Centrale Europea.
La disciplina fiscale, sancita dai limiti del 3% nel rapporto deficit/PIL e del 60% nel debito pubblico.
La concorrenza libera e non falsata, attraverso il divieto di aiuti di Stato e la centralità del mercato unico.
Ciò che colpisce, tuttavia, è ciò che manca: un vero pilastro dedicato alla crescita economica reale, alla piena occupazione o alla politica industriale comune.
In altre parole, non è previsto alcun meccanismo che consenta all’Unione di sostenere la produzione, l’innovazione o la domanda interna quando il ciclo reale entra in crisi.
L’idea sottostante era che la stabilità dei prezzi avrebbe naturalmente generato sviluppo, in un equilibrio spontaneo di mercato.
Ma questo paradigma, di chiara ispirazione monetarista e ordoliberale, si è rivelato parziale e, alla prova dei fatti, disequilibrato.
La BCE: un gigante della stabilità, ma cieco di fronte alla realtà
Il mandato della Banca Centrale Europea, definito all’art. 127 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), è inequivocabile:
“L’obiettivo principale della BCE è mantenere la stabilità dei prezzi. Fatte salve le sue competenze primarie, essa sostiene le politiche economiche generali dell’Unione”.
In pratica, la BCE non ha il compito di favorire la crescita o l’occupazione, ma solo di controllare l’inflazione. E la controlla con uno strumento: i tassi d’interesse.
Tutto funziona finché l’inflazione nasce da un eccesso di domanda o da una politica monetaria troppo espansiva.
Ma quando l’inflazione deriva da uno shock dell’offerta reale – come il costo dell’energia o l’interruzione delle catene produttive – aumentare i tassi significa aggravare la situazione: ridurre gli investimenti, frenare la crescita, indebolire le imprese.
L’inflazione reale, dunque, non si combatte con la finanza, ma con la politica industriale e con strumenti fiscali mirati. Tuttavia, né la BCE né i Trattati dispongono di leve efficaci in questa direzione.
L’impronta ordoliberale tedesca: il DNA dell’Eurozona
Non è un caso che la BCE sia nata modellandosi sulla Bundesbank.
Il modello tedesco – noto come ordoliberismo – si fonda su alcuni principi chiave:
la moneta deve essere neutrale, ossia non deve interferire con l’economia reale;
lo Stato deve garantire la stabilità del quadro normativo, ma non intervenire direttamente nel mercato; l’inflazione è il male assoluto, anche a costo di sacrificare la crescita.
Questo modello ha funzionato perfettamente in un contesto di bassa inflazione e globalizzazione crescente, dove la Germania traeva vantaggio da: energia a basso costo (gas russo),
forte domanda cinese per i beni industriali, disciplina salariale interna.
Ma quando queste condizioni sono venute meno, la rigidità del sistema ha mostrato i suoi limiti.
Oggi la Germania è in recessione tecnica, e il modello export-led si trova sotto stress strutturale.
Al contrario, Paesi come Italia, Spagna e Portogallo, pur con mille fragilità, hanno mostrato maggior resilienza grazie a settori più diversificati e a una domanda interna più elastica.
L’inflazione reale come banco di prova
L’inflazione reale ha avuto un effetto di riequilibrio inatteso: ha ridotto il divario di crescita tra Nord e Sud Europa. Paesi un tempo “periferici” hanno retto meglio perché meno dipendenti dalle esportazioni industriali e più orientati a settori adattivi (servizi, turismo, edilizia, energia rinnovabile).
Inoltre, i fondi del PNRR e del REPowerEU hanno fornito un sostegno diretto alle economie mediterranee, permettendo un aumento degli investimenti pubblici e privati.
Si tratta però di interventi straordinari, non strutturali: il giorno in cui il flusso di fondi terminerà, la divergenza potrà riaffiorare.
L’inflazione reale, in sostanza, ha dimostrato che l’UE non dispone di strumenti automatici per gestire crisi produttive e di approvvigionamento. La sua architettura è perfettamente tarata per reagire a crisi di finanza, ma non di materia.
Chi beneficia dei pilastri europei
Se si volesse costruire una mappa dei beneficiari del sistema, la conclusione sarebbe evidente:
Pilastro Strumento principale Beneficiari principali Paesi più penalizzati.
Stabilità dei prezzi Politica BCE Germania, Olanda, Austria Italia, Spagna, Grecia
Disciplina fiscale Patto di Stabilità, MES Paesi con surplus strutturale Paesi con debito elevato
Libera concorrenza Direttive UE e DG COMP Grandi gruppi transnazionali Settori pubblici nazionali
(Assente) Sviluppo reale — — Tutta la periferia produttiva.
La sproporzione è chiara: i Trattati favoriscono il pilastro monetario-finanziario, a scapito di quello reale.
L’equilibrio europeo è quindi asimmetrico: la moneta è comune, ma la capacità produttiva e fiscale resta nazionale. E questo crea un’unione incompleta, vulnerabile a ogni crisi che non sia puramente finanziaria.
Una questione di sovranità economica
Il risultato è che la BCE, pur non essendo un’istituzione politica, esercita un potere politico di fatto. Quando alza o abbassa i tassi, decide implicitamente la direzione delle politiche di bilancio degli Stati. I Paesi con alto debito sono costretti a comprimere la spesa, mentre quelli con surplus possono permettersi margini di manovra.
In termini giuridici, questo significa che la sovranità economica nazionale è condizionata da una sovranità monetaria sovranazionale. Un equilibrio instabile che, finché l’inflazione era bassa, sembrava sostenibile; ma che oggi mostra crepe profonde.
Ripensare i pilastri europei
L’Europa deve chiedersi se il proprio impianto sia ancora adatto al mondo che abita.
La stabilità dei prezzi, da sola, non può essere il fondamento di una politica economica integrata.
Servono nuovi pilastri:
Sviluppo reale e industriale condiviso, Autonomia energetica e tecnologica, Politica fiscale europea comune, Stabilità sociale e occupazionale come obiettivi di pari rango rispetto alla stabilità monetaria. Solo così l’Unione potrà affrontare le crisi future come soggetto economico, e non come semplice custode della moneta.
Conclusione
L’inflazione reale ha agito come uno specchio impietoso. Ha mostrato che l’Unione Europea funziona quando la crisi è finanziaria, ma si inceppa quando la crisi è materiale.
Non è una questione di inefficienza, ma di disequilibrio originario: un progetto costruito sulla moneta, più che sull’economia.
Finché il pilastro monetario resterà dominante sugli altri, l’Europa continuerà a reagire alle crisi anziché anticiparle. E continuerà a dipendere non dalla forza della sua industria, ma dalla direzione dei tassi d’interesse.