La pace che non piace

Con l’accettazione del “piano Trump” per il cessate il fuoco sulla Striscia di Gaza si apre, finalmente, un vero spiraglio, se non per la pace, per una “normalizzazione” della situazione in Medio Oriente.

Si tratta di un risultato straordinario, raggiunto con il supporto dei Paesi della Lega Araba come Egitto e Qatar, ma anche con l’avallo dell’Iran che, in pratica, ha obbligato Hamas a scendere a trattativa, perdendo il suo vero e più forte alleato, facendo accettare le condizioni indicate anche ai falchi israeliani, costruendo un fronte per giungere a una soluzione alla crisi molto ampio.

La base dell’accordo passa per una resa sostanziale di Hamas, almeno a livello del suo “braccio armato”, e per un periodo di transizione, legato alla ricostruzione di tutta l’area, che potrebbe essere molto lungo, che esclude, di fatto, i gazawi dalla governance perché il comitato di gestione, seppur formato da tecnici palestinesi, sarà supervisionato da un “Consiglio di Pace” presieduto dal Presidente americano e da altre personalità internazionali di rilievo, come l’ex cancelliere inglese Tony Blair, che delineerà il quadro di riferimento e gestirà i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza finché l’Autorità Palestinese non avrà completato il suo programma di riforme, come indicato in varie proposte, tra cui il piano di pace del presidente Trump del 2020 e la proposta saudita-francese, e sarà in grado di riprendere in modo sicuro ed efficace il controllo di Gaza. 

All’annuncio dell’accettazione di questo programma da parte sia del governo israeliano sia di Hamas le piazze, a Gaza come in Israele, si sono riempite di gente in festa; contrariamente a una certa narrazione non esiste una popolazione che viva per la guerra che è, al più, sopportata per giungere a un obiettivo come la sicurezza e la pacificazione dei rapporti tra le controparti. Questo ha mandato in tilt una certa fazione politica europea che aveva trovato nel supporto alla causa palestinese la sua nuova ragione d’essere e, pur con un’eco globale che va dal plauso del premier indiano Modi che ha chiamato Trump per congratularsi sul “successo storico” e sull’aumento dell’aiuto umanitario fino al benvenuto del leader laburista britannico Keir Starmer che ha accolto la “prima fase” come un passo decisivo verso la stabilità, sembra che l’Europa, soprattutto l’Italia, sia l’unica a storcere il naso mentre il mondo intero brinda a questo spiraglio.

Cos’è che urta in questo nuovo scenario che si è aperto, senza ombra di dubbio, solo per merito dell’azione di Donald Trump?

Volendo vedere lo “scoppio della pace”, anche se dobbiamo ancora vedere quanto questa possa essere definitiva, va a rendere inutili le programmate azioni di lotta come il preannunciato sciopero generale del 25 ottobre prossimo della CGIL, dall’altro, una certa narrazione portata avanti dai paladini europei dei diritti dei palestinesi va a sciogliersi come neve al sole.

“Il piano di pace Trump Netanyahu per Gaza viola gravemente il diritto internazionale e quindi è inaccettabile” ha detto, poi, Francesca Albanese durante il festival di Fanpage.it Rumore (da cui si riprendono i virgolettati) perché questo “lede il principio di autodeterminazione del popolo palestinese” prevedendo una “sorta di protettorato” che “sarebbe stato illegale già nel 1948” ed è “un abominio tirarlo fuori nel 2025”. Queste parole riecheggiano il suo bollino di febbraio quando lo aveva già definito “nonsense” e una palese violazione del diritto internazionale, insistendo che un governatore USA su Gaza puzzerebbe di colonialismo puro e che il modello proposto ignori le sentenze della Corte Internazionale di Giustizia, anche se ora, con l’Iran che dà il via libera senza riserve, le sue parole suonano un po’ isolate rispetto all’ironia del momento perché i vertici di Hamas dicono “sì” a quelle stesse condizioni mentre lei continua a gridare “no” dalle tribune europee.

Per queste ragioni, in un altro intervento, la stessa ha indicato che “Non si capisce perché dal punto di vista formale dovrebbe esserci un governatore che è una cosa veramente del secolo scorso che è inaccettabile. Quindi si ripropone un modello coloniale che peraltro impone ancora una volta quella cosa che la Corte di Giustizia delle Nazioni Unite ha definito non fattibile, illegale”, parere evidentemente non condiviso dagli stessi vertici di Hamas che hanno accettato le condizioni indicate dal “piano Trump”.

Contemporaneamente non si fermano, almeno in Italia, le manifestazioni pro Gaza e di protesta contro l’abbordaggio e il sequestro delle navi della nuova Flotilla da parte di Israele, nonostante l’IDF abbia già iniziato il ritiro dal fronte, ma a  questo punto perché non domandarsi, laconicamente e semplicemente, “perché?”.

La risposta potrebbe essere più semplice di quanto sembri: il risultato positivo sulla situazione mediorientale l’ha conseguito l’avversario politico e la conclusione della vicenda, qualunque essa sia, non rispecchia i desiderata di una certa fazione politica.

Immaginate come vi sentireste se tutto quello che avete propagandato per mesi e mesi venga a crollare, dall’autoritarismo e della visione, perché no, guerrafondaia degli USA di Trump alla politica “coloniale” di Israele, e tutto si frantumi in poche ore, tra l’altro con l’appoggio degli stati musulmani come l’Iran che erano stati dipinti, tempo per tempo, ostili alle politiche trumpiane.

Lo stesso Gad Lerner, non certo un commentatore vicino alle posizione del GOP americano, ha riconosciuto i meriti del POTUS in collegamento con la trasmissione di Lili Gruber, Otto e Mezzo, del 9 ottobre, dicendo chiaramente che l’accettazione dell’accordo rappresenta “Se […] una giornata storica, certamente […] un cambio di prospettive della guerra” poiché “non più tardi di un mese fa Israele bombardava in Qatar le stesse persone, i negoziatori di Hamas, che ha incontrato ieri sera a Sharm el-Sheikh” e questo “perché glielo ha imposto Trump” che ha coinvolto, come già indicato in precedenza, anche l’emiro del Qatar, il presidente turco Erdogan e persino l’Iran che ha dato il beneplacito a tutta l’impalcatura; cosa che, di fatto, ha permesso di raggiungere un altro risultato importante come la riapertura delle relazioni tra USA (e tutto l’occidente) con l’Iran come dichiarato dallo stesso Donald Trump, in un balletto diplomatico che un mese fa sembrava impossibile e che oggi ha persino ispirato post su X dove commentatori italiani ironizzano sul Nobel per la Pace a Trump (che, invece, è andato alla leader dell’opposizione al regime di Maduro in Venezuela, Maria Corina Machado)  mentre qui da noi si parla ancora di scioperi e flotille come se nulla fosse cambiato.

Ora c’è tutta un’area politica spaesata, poiché ha perso ogni arma retorica per contrastare un governo italiano accusato, anche in sede internazionale, di complicità con un tentato genocidio, e si ritrova a fissare le piazze di Israele e Gaza che ballano al ritmo di una tregua nata da un tweet di Trump, mentre qui si litiga su striscioni sbiaditi e petizioni online che profumano di déjà vu, come se la pace fosse un optional da boicottare per non deludere i follower, lasciando il mondo a chiedersi se l’unico vero conflitto in corso sia tra chi festeggia la vita e chi rimpiange la polemica.

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Matteo Gianola
Matteo Gianola
Fin da piccolo amavo scrivere e comunicare quello che pensavo e quello che sapevo (potrei dire anche quello che credevo di sapere) perché solo dal confronto può innescarsi una crescita personale e, anche, collettiva. Dopo la laurea in economia e l’inizio del lavoro in banca ho tentato di seguire quello che amavo, iniziano a scrivere per testate come the Fielder, Quelsi, e l’Informale fino a giungere a In Terris e, oggi, pure qui. Mi occupo principalmente di economia, politica e innovazione digitale, talvolta sconfinando anche nella mia passione, la musica.

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