La trappola della trap: veleno culturale spacciato ai nostri figli

«La trap è un problema culturale». Parola di Nicola Gratteri, procuratore capo di Napoli. Non un opinionista da talk show, ma uno che il crimine lo combatte ogni giorno, sul serio. Le sue parole, pronunciate nel backstage del concerto di Enzo Avitabile, sono un grido d’allarme che non possiamo ignorare: «Un inno alla violenza, alla droga e alla degradazione della donna, ridotta a oggetto come un secolo e mezzo fa».

Diciamolo chiaramente: la trap non è arte, non è musica. È veleno culturale, spacciato scientificamente da case discografiche senza scrupoli, amplificato da radio compiacenti e perfino nobilitato da Sanremo. È la nuova droga dell’anima, e chi la spaccia lo fa in giacca e cravatta, seduto dietro una scrivania con un Excel aperto.

Gratteri è netto: questi testi trasmettono un’idea tossica del mondo. E il problema non è solo cosa si canta, ma come viene assorbito. Quando un adolescente urla versi che esaltano il crimine o umiliano le donne, non sta semplicemente ascoltando musica: sta interiorizzando un modello di vita. E questo è devastante.

Le case discografiche non cercano più artisti, ma personaggi. Fabbricano prodotti come si fabbricano merendine: packaging accattivante, zero contenuto. Atteggiamenti da bulletti di periferia, autotune a palate e un’estetica che finge ribellione, ma odora solo di marketing. Il risultato? Ragazzi trasformati in consumatori di slogan vuoti, non in ascoltatori di musica.

Le radio fanno il resto. Passano trap in loop e poi ti dicono: «Ma è quello che piace ai giovani». Falso. I gusti si educano, e oggi sono educati da chi compra i click all’inizio, ottiene la ribalta di TV e radio e, a quel punto, si prende anche i social. È un sistema che funziona come un algoritmo: manipola, non libera.

A confronto con questi trapper, oggi sembrano giganti perfino molti artisti emersi dai reality show: almeno, nella maggior parte dei casi, loro cantavano davvero. Qui siamo alla farsa. Alla celebrazione del nulla.

E Sanremo? Da vetrina dell’eccellenza musicale italiana a passerella del vuoto. Dove una volta si ascoltavano Modugno, Mia Martini, Tenco, oggi si glorificano performer che «non sanno né cantare né scrivere», ma fanno numeri. È questo il futuro della nostra cultura musicale?

E poi c’è il paradosso più nauseante. Gli stessi che ogni giorno si stracciano le vesti gridando alla caccia alle streghe del patriarcato, fanno parte della stessa identica cricca che promuove artisti i cui testi disprezzano le donne. Ipocrisia allo stato puro.

Attenzione, però: qui entriamo in un terreno scivoloso, me ne rendo conto. Perché sono stato – e continuerò ad essere – tra quelli che si sono scagliati più volte contro la dittatura del politicamente corretto, che aborro in tutte le sue forme. Ma è proprio per questo che oggi sento il dovere di difendere principi che i gendarmi del conformismo progressista vorrebbero cancellare: l’esclusività, il merito, il decoro, la bellezza.

Difendere la libertà non significa difendere l’anarchia. Non significa sostenere che tutti possano fare tutto, sempre e comunque, anche quando si calpestano le regole minime della convivenza civile. Perché – e qui sta il punto – «la tua libertà finisce dove comincia la mia». E se è vero che non possiamo invocare la censura, è altrettanto vero che non possiamo rimanere in silenzio mentre ai nostri figli viene inculcata una cultura del degrado, dell’odio, dell’autodistruzione.

Domandiamoci: se domani uscisse una canzone che incita i giovani a combattere al fianco di Hamas, inneggiando agli attentati contro l’Occidente, la accetteremmo in nome della “libertà d’espressione”? Saremmo davvero disposti a spalancare le porte del dibattito pubblico a chi predica l’odio e la violenza, solo per non sembrare “intolleranti”?

Ecco, è proprio in nome della libertà – quella vera – che dobbiamo dire basta. Perché accettare tutto non è sinonimo di apertura mentale, ma segno di resa. Una resa culturale, valoriale, morale. E noi non abbiamo alcuna intenzione di arrenderci.

E no, non azzardate paragoni con i grandi della musica. Non bestemmiate. Vasco Rossi, i Guns N’ Roses, Eminem – giusto per citare tre mondi diversi – possono essere scomodi, provocatori, rabbiosi. Ma hanno qualcosa da dire. Parlano alla pancia e al cuore. Raccontano storie vere, emozioni universali. Questi trapper, invece, non dicono nulla: solo ostentazione, volgarità e machismo tossico.

Gratteri ci invita i nostri ragazzi a svegliarsi: «Leggete i testi di quelle canzoni che cantate a squarciagola». È un appello alla consapevolezza. Ma non basta. Serve un rifiuto deciso dell’omologazione. Serve coraggio culturale.

La musica deve tornare ad essere cultura. Un’espressione di bellezza, profondità, umanità. Non possiamo lasciare che diventi un’arma di distruzione culturale per i nostri figli.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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