Giuseppe Conte lo ha spudoratamente fatto capire in diretta dal Senato: farebbe qualsiasi cosa pur di garantire “l’eccezione”, ossia se stesso, nello Stato.
Già, altro che schmittiano stato di eccezione o più prosaico stato di emergenza: l’obiettivo del premier è restare legato a doppio filo con il potere arbitrario, i cosiddetti pieni poteri per scongiurare i quali è stato riciclato nella maggioranza giallo-rossa, salvo voi diventare esso stesso l’incarnazione di un autoritarismo (versione sanitaria) con la pochette che è riuscito a mettere in ginocchio un’intera Nazione, facendogli digerire pure un Mes rientrato dal portone.
Ossia il Recovery fund pieno zeppo di condizioni-capestro.
Non stupisce, dunque, che la proroga dell’emergenza sia stata per lui oggetto di vita o di morte: frutto di una trattativa tutta politica con le forze di maggioranza, con Pd, Iv e parte dei 5 Stelle più che infastiditi dal solipsismo del premier e stufi di socializzare i flop (lasciando a Conte la privatizzazione dei vacui successi).
Altro che «scelta di natura squisitamente tecnica» dunque, come ha cercato di vendere la proroga dello stato di emergenza in un’informativa trasformata in irritante e pedante lezione serale di diritto Costituzionale. La verità è che l’ex avvocato del popolo ritiene la sua permanenza sulla cadrega strettamente saldata con la gestione del post-Covid: simul stabunt, simul cadent.
Uno scudo, quindi, non solo nei confronti dei competitori interni (Nicola Zingaretti e Dario Franceschini da una parte, Luigi Di Maio e Davide Casaleggio dall’altra) ma anche dei contraccolpi che giungeranno dalle Regionali – dove il centrodestra è pronto al boom – e dall’arrivo di quella «crisi sociale» paventata da Luciana Lamorgese rispetto alla quale il premier non ha altri mezzi (eccetto il Mes, ma a costo di una spaccatura fra Pd e parte dei 5 Stelle) che sperare di poter gestire una lunga fase «di rientro, graduale, alla normalità».
Per ottenere tutto questo è necessario, dal suo punto di vista, continuare ad accentrare su di sé ogni movimento del sistema Italia: dai fondi europei alla scuola, dal dossier sanitario a quello dei cantieri da sbloccare.
Tutto fuorché l’immigrazione, lasciata gestire non a caso al solo ministro dell’Interno: con i risultati disastrosi e pericolosi sotto gli occhi di tutti.
Prorogare – unico Stato in Europa (sic) – lo stato di emergenza, allora, non serve di certo a preservare le misure di contrasto alla pandemia e nemmeno a perpetuare la scia dei controversi Dpcm. Il motivo per Conte è squisitamente politico: è un’assicurazione con cui i giallo-fucsia sperano di poter scavalcare il nodo Mes, il tonfo delle Regionali, il verdetto del referendum sul taglio dei parlamentari e arrivare così fino al semestre bianco.
Di fatto un blitz per tentare di arrivare a fine legislatura.
Davanti a tutto ciò è giunto il non possumus di Giorgia Meloni: «Sono scioccata. Conte sta sostenendo al Senato che senza lo stato di emergenza il governo non è in grado di fare normalissimi decreti, decreti legge, ordinanze. Questa è una grossolana menzogna e una pericolosissima deriva liberticida. Dove vuole arrivare il governo?». Esatto: dove vuole arrivare? A preservare “l’eccezione” rappresentata dall’alleanza Pd-5 Stelle. «L’emergenza serve al governo – ha continuato non a caso la leader di FdI –, a occuparsi della salute non dei cittadini ma dei ministri e del presidente del Consiglio».
Una tenaglia pericolosa, dai costi sociali ed economici incalcolabili, rispetto alla quale il premier potrebbe pagare già nelle prossime il prezzo della sua arroganza. Come? Le opposizioni a questo punto potrebbero non fare più alcuna “eccezione” a proposito dello scostamento di bilancio. Il punto è chiaro: se serve all’Italia è un conto, ma se serve solo all’emergenza di Conte…