Lo sgombero del centro sociale Leoncavallo di Milano segna la fine di un’epoca. Dopo 31 anni di occupazioni, rinvii e compromessi, la legge ha fatto il suo corso. Eppure, anziché plaudire al ripristino della legalità, la stampa progressista e gran parte della sinistra hanno subito alzato i toni, descrivendo il Leoncavallo come un “simbolo culturale” o un “presidio sociale”. La realtà, però, è ben diversa: quel luogo, più che cultura, ha spesso rappresentato violenza, spaccio, black bloc e illegalità.
Una storia lunga mezzo secolo
Il Leoncavallo nasce il 18 ottobre 1975, quando un gruppo di collettivi antifascisti e militanti della sinistra extraparlamentare occupò un edificio abbandonato in via Mancinelli. Presto, grazie alla presenza operaia del quartiere, divenne punto di riferimento per iniziative “autogestite”: concerti, ronde contro lo spaccio, laboratori, perfino una radio libera. Ma quella che appariva come una “casa del popolo” si trasformò rapidamente in un laboratorio di antagonismo politico e culturale.
Negli anni Ottanta, perso il legame con il mondo operaio, il Leoncavallo divenne più che altro una vetrina per le sottoculture giovanili. Ma dietro le chitarre punk e i murales colorati, restava l’ombra dell’illegalità. Nel 1989 il gruppo Cabassi, proprietario dell’area, ottenne lo sgombero per costruire uffici e negozi. La risposta? Scontri violenti, molotov, arresti. Persino i giudici concessero attenuanti ai militanti condannati per aver usato ordigni incendiari, parlando di “alti valori morali e sociali”: una sentenza che ancora oggi fotografa la distorsione ideologica di certi ambienti.
Negli anni Novanta, sotto la guida di Daniele Farina, il Leoncavallo si consolidò come punto di riferimento per la galassia antagonista. Gli scontri del Primo Maggio 1991 in piazza del Duomo ne furono l’emblema. Nel 1994 la sede storica venne sgomberata. Ma subito fu occupata un’altra struttura in via Watteau, con la tacita tolleranza del proprietario Cabassi. Da lì, per tre decenni, il Leoncavallo è stato sinonimo di “Spazio Pubblico Autogestito”: concerti, feste, serate, ma anche episodi di violenza, spaccio e continue tensioni con le forze dell’ordine.
La retorica ipocrita della sinistra
Oggi, di fronte allo sgombero definitivo, la narrazione progressista si concentra sul “valore culturale” del Leoncavallo, minimizzando o dimenticando completamente ciò che rappresentava per i residenti e per la città: un luogo sottratto allo Stato, una roccaforte antagonista che nel tempo ha protetto violenti e spacciatori. Parlare di “centro culturale” è un insulto al buon senso e ai cittadini che hanno subito per decenni le conseguenze della sua presenza.
La stessa Sinistra che oggi versa lacrime mediatiche è la stessa che, in passato, ha tollerato o addirittura coccolato realtà simili, giustificando l’ingiustificabile in nome della “cultura alternativa”. Ma il conto, alla fine, lo hanno pagato i milanesi onesti, costretti a convivere con un’area sottratta al controllo della Legge.
La fermezza del governo
Con lo sgombero del Leoncavallo, lo Stato ha riaffermato un principio fondamentale: non esistono “zone franche”. Non esistono cittadini di serie A, che possono occupare impunemente per decenni, e cittadini di serie B, che devono pagare mutui, affitti e tasse.
Sui social lo ha riaffermato anche il premier Giorgia Meloni: “In uno Stato di diritto non possono esistere zone franche o aree sottratte alla legalità. Le occupazioni abusive sono un danno per la sicurezza, per i cittadini e per le comunità che rispettano le regole. Il Governo continuerà a far sì che la legge venga rispettata, sempre e ovunque: è la condizione essenziale per difendere i diritti di tutti.”.
Parole chiare, che smontano la retorica di chi, da decenni, ha difeso gli spazi occupati come se fossero templi intoccabili, dimenticando le conseguenze per gli italiani.
Una pagina che si chiude
Dopo 31 anni di rinvii, compromessi e tolleranze, la famiglia Cabassi ha finalmente visto riconosciuto un diritto elementare: riavere la sua proprietà privata. E Milano, ma soprattutto l’Italia intera, ha visto riaffermato un – se non, “il” – principio cardine della democrazia: il rispetto delle regole.
Il Leoncavallo non è stato un “faro culturale”, come raccontano i nostalgici, ma una ferita aperta nella legalità. A chi, come Marina Boer, presidente dell’Associazione Mamme Antifasciste – e già il nome dell’associazione dice tutto – reagisce gridando che lo sgombero sarebbe “un colpo al cuore” e che “Milano sta diventando una città di me**a”, non resta che constatare quanto certa sinistra sia distante dal paese reale, e dagli italiani.
Con lo sgombero si chiude una pagina buia. E chi esulta non è “contro la cultura”, ma a favore della giustizia, dello Stato di diritto e di una città più sicura.
Perché la vera cultura nasce nel rispetto delle regole, non nell’illegalità.