La regione Abruzzo, all’inizio della consiliatura e dunque non in preda ad affanni dettati da necessità elettorali, vara una legge per garantire un freno alle corsie preferenziali per gli stranieri nell’attribuzione degli alloggi popolari. Il clamore che ne consegue, sia in senso positivo che negativo, sconta del tutto evidentemente impostazioni ideologiche inconciliabili e oggi il governo impugna la legge regionale di fronte alla corte costituzionale, definendola discriminante.
Ebbene non si vuole scendere in una disamina tecnico giuridica della vicenda, perché prima del diritto in questo caso occorre considerare lo stato di fatto.
Gli italiani sono stati illusi, per non dire turlupinati, da un sistema che gli ha fatto credere di dover avere un tenore di vita che nel tempo è diventato recisamente insostenibile.
Avremmo dovuto aver diritto al posto fisso o altrimenti, con un po’ di fatica e di studio in più, ad una professione redditizia. Avremmo dovuto poter credere di progredire e di avanzare nella “scala sociale” proporzionalmente alle risorse investite. Avremmo dovuto avere la casa di proprietà, le automobili di proprietà e il conto in banca in attivo e con le riserve per garantirci da imprevisti. Avremmo potuto avere almeno due figli e poter garantire loro istruzione, sport, passatempi e viaggi.
Questo si immaginava possibile fino a vent’anni fa, quando la generazione degli odierni quarantenni si affacciava al mondo adulto e in questa direzione si sono mossi la maggior parte dei giovani italiani a fine anni novanta inizio duemila.
Per poi trovarsi vent’anni dopo con i mutui insoluti, i conti in rosso, senza uno straccio di prospettiva e con le case di proprietà delle banche, ultimo baluardo da salvare. Le imprese tutte decotte, chi attendeva il posto fisso ancora in attesa e con mille rughe in più messe sul volto dalle peregrinazioni del precariato, i professionisti con montagne di debiti con l’erario. Figli pochi o niente.
Contestualmente si è sostituito al modello nel quale avevamo investito un modello alternativo, derivante da un flusso migratorio imponente. Il modello del migrante temporaneamente risiedente sul suolo nazionale, con la prospettiva di monetizzare il più possibile e di trasferire ricchezza nella propria terra di origine. Senza necessità o desiderio di investire in attività durature nella patria di accoglienza e quindi senza necessità di acquistare case, auto o di mettere in piedi aziende durevoli. Molto spesso con la concezione della condivisione dell’alloggio, anche a scapito del rispetto delle minime norme igieniche o sanitarie e strutturali, con sovraffollamenti oltre il sopportabile.
Ecco, questo lo stato di fatto. Sono due modelli a confronto, di cui uno esce sconfitto, quello tradizionalmente appartenente alla nostra cultura, perché ogni provvidenza, ogni assistenza, ogni cautela, se non si parte da questi principi e se si seguita ad utilizzare meramente l’odioso criterio matematico del reddito, verrà sempre attribuita a chi italiano non è.
E dunque per perseguire una fallace uguaglianza si penalizza l’equità.
Bene ha fatto la regione Abruzzo a garantire i cittadini, perché diversamente si discriminerebbe l’italiano, che in questa nazione ha creduto, in cui ha investito e da cui è stato tradito. È il momento di restituire agli italiani non solo ciò che hanno dato, ma prima di ogni cosa la dignità.