Le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ricordi lontani ma sempre attuali

Gli attentati

Sono trascorsi 33 anni da quei maledetti giorni, quando Cosa Nostra, uccise nel primo attentato Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Poco meno di due mesi dopo ci fu la seconda strage, e fu la volta di Paolo Borsellino con i cinque agenti della scorta: Emanuela Loi (cui spetterà il triste primato di essere la prima donna della Polizia di Stato a morire in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina e Claudio Traina.

Poiché la storia può essere vista e raccontata in tanti modi, io voglio ricordarla dal mio punto di vista, il punto di vista cioè di chi c’era e che è uscito cambiato da quella esperienza. Il mio è quindi un omaggio doveroso e rispettoso verso due grandi magistrati, e verso gli agenti che perirono con loro.

All’epoca ero in forza al II° Gruppo di Palermo e comandavo il reparto navale di Palermo, da cui dipendevano le Squadriglie di Trapani, Licata e Porto Empedocle, con un raggio d’azione vastissimo: tutta la Sicilia occidentale, comprese le isole Egadi, le Pelagie, Ustica, Pantelleria. I II Gruppi, uno per Regione, erano reparti d’eccellenza della Guardia di Finanza, e sommavano i famosi “Baschi Verdi”, la Compagnia Anticontrabbando, la Sezione I ed il Comparto Aeronavale sotto un unico comando. Un mix di informazioni ed operatività che aveva pochi eguali sul territorio nazionale.

In quella violenta stagione mafiosa, Cosa Nostra aveva elaborato una sanguinaria strategia di omicidi eccellenti: aveva dapprima commesso l’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) ed era poi andata avanti con impressionante regolarità ogni due mesi: Falcone il 23 maggio 1992, Borsellino il 19 luglio 1992, Ignazio Salvo il 17 settembre 1992, per arrivare infine all’arresto del capo dei capi corleonesi, Totò Riina il 15 gennaio 1993.

Ricordo come fossero ieri i due giorni delle stragi:

Il 23 maggio del 1992 era un giorno qualsiasi di primavera, era un sabato pomeriggio e mi trovavo in centro a Palermo. Ero allora un giovane Capitano catapultato in una città che di lì a poco sarebbe cambiata per sempre. Dall’omertà, se non al diniego dell’esistenza stessa della mafia, alla paura ed allo sgomento causato dagli attentati; la paura si era poi trasformata in rabbia verso lo Stato – specie dopo la morte di Borsellino – colpevole di non aver saputo proteggere due dei suoi figli migliori, ma soprattutto rabbia e rifiuto verso un sistema mafioso che aveva superato ogni limite morale. Rabbia che infine portò alla rinascita di una intera città, Palermo, e di un intero popolo, quello siciliano.

All’epoca avevamo in dotazione i teledrin, piccoli apparecchietti che informavano che il comando ti stava cercando al telefono, ed appresi così, dalla nostra Sala Operativa, che c’era stato un attentato a Giovanni Falcone. Angoscia e smarrimento furono i primi sentimenti che provai, prima di correre presso il comando per mettermi a disposizione, ed ove rimasi per 48 ore di seguito assieme a molti altri, senza che nessuno osasse anche solo pensare di andare a casa a riposare; ricordo il pianto di tanti poliziotti, carabinieri, poliziotti, gente comune, quando la sera arrivarono le conferme che purtroppo Falcone e sua moglie non ce l’avevano fatta; ricordo il dolore per i poliziotti periti; ricordo i funerali di Stato, la folla oceanica e dolente, e ricordo Rosaria Costa Schifani con la sua voce straziata e le sue parole:”Io vi perdono, ma vi dovete mettere in ginocchio”, che furono davvero un pugno nello stomaco e che ricorderemo tutti per sempre.

Il secondo attentato avvenne il 19 luglio, e come detto portò all’omicidio di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta.

Qualcuno potrà tacciarmi di essere un campione del senno del poi, ma io veramente lessi nel viso di Borsellino, in un momento del funerale di Giovanni Falcone, una sua chiara consapevolezza dell’imminente morte. Ricordo che il Dott. Borsellino era seduto, dentro la Chiesa di San Domenico, al termine della cerimonia funebre per Falcone, su una sedia posta al di fuori del corpo centrale della Chiesa, in un locale attiguo che probabilmente portava ad una uscita laterale ed era, lui solo, illuminato da un raggio di sole.

Era lì, circondato dalla scorta, quando i miei occhi incrociarono i suoi. Vidi un uomo affranto, stanco, con uno sguardo che non trasmetteva però paura o dolore, ma piuttosto sconforto e dispiacere, come se si rendesse conto della ineluttabilità della sorte che gli era stata promessa da Cosa Nostra, e che lo Stato non sarebbe stato in grado di evitare, come poi accadde. Ma d’altronde, anche se io non ne ero a conoscenza, già pochi giorni prima di essere ucciso Paolo Borsellino aveva parlato di sé stesso come di un “condannato a morte”, perché sapeva di essere nel mirino e sapeva che difficilmente la mafia si sarebbe lasciata sfuggire una sua vittima designata.

Il giorno dell’attentato era una domenica di sole e di caldo, come era ovvio per l’estate siciliana, ed io ero al mare, a Terrasini, in un posto bellissimo, quando di nuovo il famoso teledrin si mise a vibrare facendo comparire il numero della Sala Operativa. Immediatamente capii che era accaduto ancora una volta qualcosa di osceno, di vigliacco, ed infatti ne ebbi la conferma quando telefonai al comando. Ovviamente feci subito ritorno in città per mettermi a disposizione, come già fatto dopo la strage di Capaci.

Quella notte, in un clima di vero e proprio stato di guerra il Governo, con l’allora Ministro Claudio Martelli, reagì duramente. Fui presente ad una riunione d’urgenza in cui venivano richiamati in servizio tutti gli Ufficiali alla sede di Palermo per essere impiegati, assieme ovviamente a funzionari della Polizia di Stato, Ufficiali dei Carabinieri e a centinaia di poliziotti, carabinieri e finanzieri, come scorta per il trasferimento in massa, nottetempo, di circa trecento mafiosi detenuti all’Ucciardone, nei molto più duri penitenziari dell’Asinara e di Pianosa.

Ma la cosa che mi fece davvero paura fu la reazione di tanti uomini e donne, poliziotti o semplici cittadini, durante i funerali degli agenti uccisi. Il 21 luglio infatti, nella Cattedrale di Palermo, si svolsero le esequie dei ragazzi della scorta ai quali partecipò tutta la città, e che furono caratterizzati da grandi contestazioni, in particolare nei confronti del neopresidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, che fu costretto a uscire da una porta secondaria al termine della messa tra spintoni e lancio di oggetti, mentre l’allora Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, cercava di frapporsi tra chi protestava e il Presidente, prendendo egli stesso pugni e calci. Era ovviamente una reazione rabbiosa di frustrazione nei confronti di chi, in quel momento, rappresentava il fallimento totale dello Stato e la vittoria, che però ne segnerà l’inizio della fine, della sanguinaria mafia corleonese.

Ricordo che nei giorni successivi andai in via D’Amelio, distante dal mio alloggio nemmeno un chilometro, e ancora si sentiva nell’aria l’odore feroce della morte che aveva nuovamente insanguinato la città.

Cosa ci resta

Su cosa hanno comportato gli eccidi di Falcone e Borsellino in termini di lotta alla mafia, potremmo scrivere non uno, ma decine di libri: riforme penali e processuali; il 41-bis; lotta alle mafie con nuovi strumenti finanziari e patrimoniali, secondo  il cosiddetto “metodo Falcone e Borsellino” di seguire i flussi di denaro; l’istituzione della DDA/DNA; l’utilizzo dei “pentiti” previo riscontro delle loro dichiarazioni; una influenza positiva su altre legislazioni processuali penali e sulle attività investigative di tanti paesi europei e soprattutto degli USA, dove Falcone era considerato un autentico mito vivente.

Ma in questa sede voglio sottolineare un altro tipo di vittoria, la vittoria morale dell’Italia perbene su quella del male. Il sacrificio dei due magistrati (che però lo Stato aveva il dovere di evitare e che non potrà mai essere perdonato!) suscitò uno sdegno tale, una rabbia tale, mai provata prima anche in occasione di altri efferati crimini contro uomini delle istituzioni, che fece finalmente sorgere a Palermo, in tutta la Sicilia, in tutti il meridione e in tutta Italia, la consapevolezza genuina che bisognava ripudiare ogni forma di criminalità, e che doveva invece essere affermato senza se, e senza ma, il principio sacrosanto di legalità e di onestà.

Oggi nessuno mette più in dubbio l’esistenza stessa di Cosa Nostra, ancora viva per quanto ferita, e nessuno più ne giustifica l’operato, cosa che in passato era purtroppo avvenuto.

Oggi i giovani nelle scuole, nelle associazioni, nelle famiglie, ma possiamo dire l’intera società italiana, è consapevole dei danni che causa la criminalità organizzata in ogni settore, e sono oramai forti gli anticorpi per rigettare quel cancro, grazie anche e soprattutto al sacrificio di eroi moderni come Falcone e Borsellino.

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Sergio De Santis
Sergio De Santis
Col. (ris.) della Guardia di Finanza

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