Il Corriere di oggi apre con un editoriale intitolato «la destra e la svolta che non c’è»; il fatto che Ernesto Galli della Loggia sia tra le firme più autorevoli del panorama nazionale è senz’altro stimolante in termini di confronto, trasformando il suo articolo in una buona opportunità per mettere nero su bianco alcune riflessioni sul percorso sin qui compiuto da Fratelli d’Italia e dal suo leader, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
Anzitutto occorre soffermarsi sull’incipit del ragionamento di Galli della Loggia, secondo cui il 25 settembre scorso la maggioranza degli italiani avrebbe scelto Giorgia Meloni confidando «nelle sue capacità di cambiare: non solo il Paese ma di cambiare anche se stessa e la sua propria storia». Lo dico da spin doctor, cioè da addetto ai lavori: la storia degli ultimi tre lustri ci dice che è vero l’esatto contrario; il riferimento è agli inflazionatissimi casi di studio di Renzi, Salvini e del Movimento 5 Stelle, oltre che di Gianfranco Fini.
Ergo, gli italiani hanno premiato Giorgia Meloni proprio in virtù dell’oggettiva coerenza dimostrata lungo tutto il suo percorso politico, da Azione Giovani a Palazzo Chigi, passando per la ricostruzione della destra avendo il coraggio di abbandonare il certo per l’incerto: scendere dalla tutto sommato comoda nave da crociera berlusconiana per costruire con le proprie mani l’imbarcazione con cui sfidare il mare in tempesta per fare ritorno a Itaca.
Giorgia Meloni e le persone che hanno condiviso con lei questa difficile traversata hanno riconsegnato una casa ad un’area politica – che in Italia rappresenta buona parte della cosiddetta maggioranza silenziosa – che le vicissitudini dell’epoca avevano spazzato via. Ed è proprio in virtù della coerenza che ci sono riusciti: quella tra parole e azioni, concetto apparentemente banale, al quale, però, noi italiani eravamo tristemente disabituati.
Galli della Loggia esplicita il concetto attraverso alcune considerazioni piuttosto retoriche su un partito, Fratelli d’Italia, che a suo dire, per guadagnarsi i galloni del «grande partito conservatore» dovrebbe essere: «cauto nel parlare e deciso nell’agire» (riferimento alla chiarezza espositiva di Giorgia, che egli considera un difetto, mentre è un grandissimo pregio.
La controprova consiste nell’inefficacia comunicativa di Elly Schlein e del suo eloquio che anche molti analisti di sinistra tra cui Paolo Mieli definiscono “poco comprensibile”); «difensore degli interessi nazionali ma non nazionalista» (che, tradotto, significa non battersi in difesa del sacrosanto principio di sovranità, a partire da quella digitale, giusto per citare un esempio); «nemico del conformismo progressista ma non del progresso» (quindi avallare quei presunti diritti come utero in affitto o ius soli, sui quali peraltro nemmeno la sinistra in 10 anni di governo ha prodotto risultati concreti); «nemico del giustizialismo ma non della giustizia» (evidente il riferimento alla riforma Nordio, ma non ai recenti fatti di cronaca che, per usare un eufemismo, non hanno dato lustro alla Magistratura); «interessato più alla crescita dell’economia e dei salari che a quella dei conti in banca dei balneari o degli evasori fiscali» (peccato che l’economia stia crescendo e che ciò avvenga anche in virtù delle norme atte a rendere il fisco meno oppressivo per chi l’economia ed i salari li produce, ovvero imprenditori e liberi professionisti).
In buona sostanza, Galli della Loggia auspicava «una voce dal timbro nuovo capace di disegnare una prospettiva in cui potessero riconoscersi in molti al di là dell’appartenenza di partito», senza forse rendersi conto che Fratelli d’Italia è già il primo partito a livello nazionale e che sta incrementando il proprio consenso in virtù, come scrivevo all’inizio, della coerenza di Giorgia Meloni e della sua classe dirigente. A conti fatti, quella da lui tratteggiata somiglia molto alla “destra di sinistra” di cui s’innamorò Gianfranco Fini (voto agli immigrati, diritti civili, giustizialismo, ecc ecc) e che, lo dice la storia, alle elezioni politiche non riscontrò i favori della «maggioranza degli italiani», ma solo dello 0,4%.
Non sarà forse il caso di cominciare a pensare che a fare cose di sinistra debba pensarci qualcun altro? La butto lì: la sinistra?
I grandi difetti della sinistra italiana sono, sostanzialmente 2, e cioè: volere a tutti i costi tracciare la linea politica della destra, e non voler dare un taglio a quell’antifascismo, vecchio di quasi 80 anni, che, credono ancora, li possa tenere a galla in quel mare che si chiama consenso. Per l’antifascismo non ho la cura. Sentire questi giovani, come la Sclein, nata in Svizzera nel 1985 ( ben 40 anni dopo la fine del fascismo!) parlare di fascismo, mi sembra quasi che stiano ripetendo la lezione sentita a scuola nell’ora di storia. Potevo capire gente come Pertini che il fascismo lo avevano vissuto, ma lei, Zaki e le “sardine” non sono credibili. Al contrario, invece, per quel che riguarda la linea politica questa la risposta ce l’ho. La sinistra italiana è sempre stata arrogante e presuntuosa, ha sempre creduto di essere sopra le parti e di pretendere ( da buon esponente di un vero “credo” dittatoriale come solo il comunismo sa essere) la linea politica che tutti i partiti dell’arco costituzionale dovevano e devono adottare.
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