È indubbio, Giuseppe Conte sta dimostrando di essersi confrontato almeno una volta nella sua vita con un bignami di Carl Schmitt: con lo “stato d’eccezione”, infatti, ha preso una certa confidenza. Forse però – per essere un cattolico democratico, come lui ama ripetere pavoneggiandosi – ci ha preso troppo la mano e anche un certo gusto nel soprassedere alle tanto decantate regole delle «grammatica istituzionale» su cui ha sempre rivendicato una devozione liturgica. A maggior ragione, aggiungiamo noi, quando si è trattato di scovare codicilli, clausole ed escamotage fra le norme per perpetuare il suo personalissimo e andreottiano «tirare a campare».
È successo poi che davanti a una crisi enorme, oggettivamente complessa, come quella Covid-19 il “Camaleconte” ha subito l’ennesima trasformazione: in un battibaleno ha adatto la sua presidenza, come si dice in politologia, da “impersonale” (noi diremmo: anonima, come è stata la sua stagione giallo-verde) a “personale” (qui tradotta in una caricatura sudamericana). Tutto ciò senza possedere però – e questo è un grave handicap – le credenziali del principe moderno: ossia il consenso, il carisma e la visione.
Ecco perché, superato un mese di blocco totale nel quale ha potuto letteralmente e incredibilmente disporre semi-indisturbato della libertà di 60 milioni di italiani, i nodi iniziano velocemente a venire al pettine: approssimazione, arroganza, accentramento senza contrappesi, vanagloria e una pericolosa tendenza a criminalizzare la critica e l’informazione.
La stroncatura della pesantissima limitazione delle libertà fondamentali, gestita in maniera “sgrammaticata” da parte di Conte, l’ha stabilita, ad esempio, un’autorità del diritto come Sabino Cassese, non certo ascrivibile culturalmente al centrodestra: «Abbiamo assistito – ha spiegato parlando della “decretite” del premier –, da un lato, alla centralizzazione di un potere che era del ministro, nelle mani del presidente del Consiglio. Dall’altro, a una sottrazione di un potere che sarebbe stato ben più autorevole, se esercitato con atti presidenziali». Un giudizio senza appello per i provvedimenti di emergenza (il primo addirittura «fuori legge», secondo Cassese) tradotti in una serie «di norme incomprensibili, scritte male, contraddittorie, piene di rinvii ad altre norme».
Se questo è il giudizio sulla forma – che nel diritto è tutt’altro che formale – la sostanza del “metodo Conte” in questa crisi pandemica è una prassi che ha fatto più volte a pugni con il rispetto delle regole.
Se da un lato, infatti, il “giornale unico” italiano si è strappato le vesti per lo stato d’emergenza convocato (dopo il passaggio in Parlamento) da Viktor Orbàn, in Italia Conte dal 25 marzo sta continuando a limitare come mai vista primo in democrazia la libertà personale di tutti gli italiani sulla base di un decreto non ancora convertito dal Parlamento. Insomma: il governo sta agendo da solo, con il ruolo dei deputati del popolo ridotto a rito sbrigativo da evitare in tutti i modi (ne sa qualcosa il mancato voto sul Mes in vista del Consiglio europeo).
Come sta agendo il premier? Dentro una cornice in cui – dal 31 gennaio – è stato dichiarato ufficialmente lo stato di emergenza, si può indicare tranquillamente una gestione disorganizzata, arrogante, ansiogena e tutta incentrata nel separare chirurgicamente narrazione e fatti. Non si contano le gaffe di Conte e del suo staff: una su tutte quel «siamo prontissimi. L’Italia in questo momento è il Paese ha adottato misure cautelative all’avanguardia rispetto agli altri», recitato con toni perentori il 27 gennaio dall’ex avvocato del popolo a Otto e mezzo due giorni prima del primo caso di contagio finito allo Spallanzani.
In questi giorni si è capito poi, grazie allo scoop di Franco Bechis, il motivo per cui Conte assicurava di dormire sonni così tranquilli: perché il “Giuseppi Hospital” a palazzo Chigi prevedeva già l’acquisto massiccio di dispositivi sanitari per il suo celebre inquilino, quando ancora oggi le protezioni più elementari mancano a tanti medici ed operatori in prima linea negli ospedali di mezza Italia.
Da irresponsabile, poi, la gestione della comunicazione istituzionale da parte del presidente del Consiglio. Conferenze stampa ad orari improbabili, uso “privato” delle comunicazioni alla nazione per alimentare il traffico della propria pagina Facebook, annunci di provvedimenti ancora da limare (quando non da scrivere): Conte ha sconvolto tutte le consuetudini e le liturgie per assecondare il suo presenzialismo e l’ansia di restare al centro dell’attenzione. Il risultato, però, è coinciso con lo smarrimento e lo sgomento di milioni di cittadini italiani costretti a subire decisioni – ad esempio la limitazione di spostamenti o la chiusura degli esercizi e delle attività – senza alcun protocollo, senza tempi e regole precise. E certo, senza coperture finanziarie minimamente appropriate al sacrificio enorme richiesto.
Come premio di consolazione, però, l’ex avvocato del popolo ha pensato bene di prendere di petto la situazione e di dotarsi di alcune task force chiamate a sostenerlo (ma forse, domani, a sostituirlo) nella cosiddetta “fase 2”. Nel frattempo, però, una di queste commissioni si sta occupando dell’emergenza nell’emergenza: quelle che riguarda – secondo il governo – le famigerate “fake news”…
Già, davanti a più di 20mila deceduti, a un’economia che perderà il 9% del Pil, a una quarantena dove lo Stato sta legittimando fenomeni inquietanti di controllo sociale e incentivando culturalmente la delazione, il giallo-rossi hanno pensato bene di istituire una commissione di (presunti) “tecnici” d’area, l’80% vicini alla sinistra, chiamati a segnalare contenuti ritenuti dannosi alla “verità” sul coronavirus. Quale verità, dato che gli stessi medici e le istituzioni a cui si affida lo stesso esecutivo hanno detto tutto e il contrario di tutto? Nessuna. L’obiettivo, in realtà, non è quello di isolare i produttori di bufale in rete ma di limitare ancora di più l’unica possibilità rimasta in tempo di quarantena: la critica.
Pratica più che legittima, anzi necessaria e fondamentale, nel momento in cui il produttore seriale di notizie fake è proprio il premier Conte. L’ultima della serie è quella legata al Mes: dopo averlo invocato – nell’intervista al Financial Times – e fatto votare al suo ministro dell’Economia all’Eurogruppo chiamato a decidere il pacchetto per il rilancio dei Paesi colpiti dal contagio, l’avvocato di Volturara Appula ha avuto la faccia tosta di recitare, nell’ormai famosa conferenza stampa il giorno dopo il vertice dei ministri delle Finanze europei, una forma di dissociazione dalla sua stessa adesione al Mes accusando invece Giorgia Meloni e Matteo Salvini (ai tempi il segretario era Roberto Maroni) di aver voluto e votato il Fondo Salva-stati nel 2012 «con un governo di centrodestra»: quando invece al governo sedeva Mario Monti e né la leader di FdI né quello della Lega votarono «sì» al Mes. Al contrario: si opposero con durezza, aprendo in quel frangente e su questi temi la stagione che ha portato oggi il destra-centro ad essere maggioranza popolare e politica della nazione.
Una bugia sulla quale Conte non ha ritenuto, ovviamente, di fare alcun passo indietro. Così come su ogni inciampo (e sono stati numerosi) avvenuto in questa crisi non hai mai fatto ammenda né rettificato dimostrando una capacità di “astrazione” dai fatti e dalle responsabilità che lo rende un vero e proprio fenomeno della dissimulazione. Perché se fosse realmente così sarebbe davvero un caso psichiatrico.