La cornice storica: quando la moneta divenne vincolo e non strumento
L’Unione Europea, nella sua forma economica e monetaria, nasce da un atto di fiducia e di disciplina. Il Trattato di Maastricht del 1992, firmato sotto il governo Andreotti, con Guido Carli al Tesoro e Carlo Azeglio Ciampi in Banca d’Italia, definì le regole della futura moneta unica.
Stabilità dei prezzi, inflazione contenuta, deficit pubblico inferiore al 3 % del PIL e debito sotto il 60 %: queste divennero le nuove tavole della legge.
Quando, negli anni successivi, l’Italia fu chiamata a rispettare quei parametri, Romano Prodi, da presidente del Consiglio, e Ciampi, da ministro del Tesoro, guidarono il Paese verso l’ingresso nell’euro.
Fu un successo politico, ma anche l’inizio di una lunga dipendenza da un modello pensato per economie più robuste della nostra.
Come ricorda l’OCSE Employment Outlook 2024, nei vent’anni successivi l’Italia ha registrato la crescita salariale reale più bassa d’Europa: appena +1 % dal 2000 al 2023, contro +20 % in Francia e +28 % in Germania.
La causa non è solo economica, ma strutturale: l’architettura dell’Unione monetaria ha reso il lavoro italiano l’unico strumento residuo di aggiustamento macroeconomico.
La combinazione asimmetrica tra politiche fiscali e monetarie
Nell’Eurozona, la politica monetaria è unica e gestita dalla BCE, mentre le politiche fiscali restano nazionali, ma sottoposte a regole comuni.
È questa la radice dell’asimmetria: la Banca Centrale Europea decide i tassi, ma non esistono bilanci federali in grado di compensare gli shock asimmetrici.
Nei Paesi del Nord — Germania, Olanda, Austria — surplus commerciali e finanze pubbliche solide consentono politiche espansive e investimenti produttivi.
Nei Paesi del Sud — Italia, Spagna, Grecia, Portogallo — i vincoli di bilancio impediscono margini di manovra, anche in tempi di crisi.
Il risultato è una “Europa a due velocità”: il Nord cresce esportando e accumulando risparmi, il Sud comprime salari e spesa pubblica per rispettare le regole di Bruxelles.
La BCE stessa, nei suoi Structural Issues Reports (2023), riconosce che la convergenza nominale non si è mai tradotta in convergenza reale.
E l’Eurostat certifica che, dal 2000 al 2023, la produttività del lavoro in Germania è cresciuta del 24 %, in Francia del 20 %, mentre in Italia appena del 4 %.
Quando la produttività non cresce e la moneta non può svalutarsi, l’unico modo per restare competitivi è svalutare il lavoro.
La “svalutazione interna”: quando la competitività si misura in sacrifici
Dal 2010 in poi, in piena crisi del debito sovrano, la Commissione Europea, la BCE e il FMI — la cosiddetta Troika — raccomandarono ai Paesi periferici di contenere la dinamica salariale e ridurre il costo del lavoro.
Fu la stagione delle riforme del lavoro, dei tagli alla spesa pubblica e della sospensione dei contratti collettivi.
La Grecia ridusse i salari pubblici fino al 30 %; il Portogallo aumentò l’orario di lavoro senza aumenti retributivi; la Spagna semplificò i licenziamenti; l’Italia bloccò gli stipendi nel pubblico impiego e introdusse forme di precarietà sempre più diffuse.
I dati Eurostat (2024) mostrano che il costo del lavoro per ora lavorata è aumentato del 46 % in Germania e del 44 % in Francia, ma solo del 30 % in Italia e del 10 % in Grecia.
La produttività stagnante e la compressione salariale hanno così creato un divario crescente: chi aveva una struttura industriale forte ha potuto aumentare i salari; chi non l’aveva, ha dovuto limitarli per non perdere competitività.
Questa dinamica è ciò che gli economisti definiscono “svalutazione interna”: non si svaluta la moneta, si svaluta la busta paga.
I garanti dell’architettura: Prodi, Gentiloni, Letta e Draghi
A consolidare questa architettura furono figure politiche e tecniche di grande rilievo, accomunate da un europeismo disciplinato e pragmatico.
Romano Prodi, oltre ad aver guidato l’Italia all’euro, da presidente della Commissione Europea (1999–2004) promosse il Patto di Stabilità e Crescita, che rafforzò i vincoli di bilancio.
Enrico Letta, da premier (2013–2014), mantenne la linea del rigore fiscale, sostenendo la priorità della credibilità europea sul rilancio interno.
Paolo Gentiloni, oggi commissario europeo per l’Economia, è il custode del nuovo Patto di Stabilità riformato: ha ammesso la necessità di flessibilità, ma senza mai mettere in discussione il principio dell’equilibrio di bilancio.
Mario Draghi, da governatore di Bankitalia e poi da presidente della BCE, ha difeso la moneta unica nei momenti più difficili (“whatever it takes”), ma nel solco di quell’impianto: una BCE indipendente che garantisce stabilità dei prezzi, non piena occupazione.
Tutti, in diversa misura, hanno creduto che la disciplina fosse la premessa della prosperità.
Ma quella disciplina — se non accompagnata da strumenti redistributivi — ha finito per rafforzare le economie già forti e penalizzare le più fragili.
La contraddizione politica contemporanea
Oggi, partiti come Più Europa e Verdi–Sinistra accusano il governo Meloni di non tutelare i salari italiani.
Eppure, quelle stesse aree politiche sono le eredi dirette di quel pensiero economico che ha reso i salari italiani così rigidi e il potere d’acquisto così vulnerabile.
È una contraddizione evidente:
“Si invoca la giustizia salariale, ma si difendono i trattati che impediscono la politica dei redditi”
Le critiche attuali, prive di un ripensamento dell’impianto europeo, restano dunque parziali.
Non si può chiedere a un governo nazionale di “alzare i salari” se il quadro comunitario continua a imporre vincoli che disincentivano la spesa pubblica, la contrattazione di settore e gli investimenti industriali.
Il vincolo giuslavoristico: perché il governo non può agire da solo
A questo quadro economico si aggiunge un vincolo giuridico altrettanto vincolante.
In Italia, la determinazione delle retribuzioni avviene attraverso la contrattazione collettiva tra le parti sociali, come previsto dall’art. 39 della Costituzione e dalle norme del diritto del lavoro.
Lo Stato non stabilisce i salari, ma ne tutela la cornice: garantisce la libertà sindacale e promuove il confronto tra datori di lavoro e lavoratori.
Un intervento diretto e unilaterale del governo, volto a modificare i livelli retributivi senza accordo tra le parti, sarebbe considerato invasivo e potenzialmente incostituzionale, in quanto violerebbe l’autonomia negoziale sancita dalla Carta.
Inoltre, l’art. 45 e seguenti del TFUE sulla libera circolazione dei lavoratori e dei capitali impone che gli Stati membri non alterino artificialmente la competitività interna del mercato unico.
Un aumento salariale imposto per decreto, se non coordinato, potrebbe essere interpretato come distorsione della concorrenza o, in taluni casi, come aiuto di Stato indiretto (art. 107 TFUE).
Ciò significa che anche un governo volenteroso si trova stretto fra due livelli di compatibilità:
- Costituzionale, perché deve rispettare il ruolo delle parti sociali;
- Europeo, perché deve garantire la neutralità del mercato unico.
La conseguenza è chiara: nessun governo, di destra o di sinistra, può oggi aumentare i salari per legge senza violare un equilibrio normativo più ampio.
Può solo agire indirettamente — incentivando la produttività, riducendo il cuneo fiscale o sostenendo la contrattazione di secondo livello — ma non sostituirsi alla dinamica collettiva del lavoro.
Il paradosso italiano: avanzo primario e povertà salariale
L’Italia, pur con stipendi stagnanti, ha mantenuto per oltre vent’anni un avanzo primario (spesa pubblica al netto degli interessi inferiore alle entrate).
Questo significa che, da un punto di vista contabile, il Paese ha sempre rispettato le regole del rigore più di altri partner europei.
Ma quella virtù contabile ha avuto un prezzo sociale: perdita di potere d’acquisto, riduzione degli investimenti e impoverimento della classe media.
Secondo l’ILO Global Wage Report 2024, i salari reali italiani sono diminuiti dell’8,7 % rispetto al 2008 — ultimo tra i Paesi del G20.
La Banca d’Italia, nella Relazione annuale 2023, parla apertamente di “stagnazione salariale strutturale” e di “bassa trasmissione tra crescita del PIL e redditi da lavoro”.
In altri termini: l’Italia lavora, risparmia e produce avanzo primario, ma i cittadini diventano più poveri.
Conclusioni: la coerenza come forma di verità politica
“Possiamo dunque affermare, senza ambiguità, che l’architettura europea — nelle sue componenti monetarie, fiscali e normative — abbia favorito i Paesi del Nord e costretto quelli del Sud, Italia in primis, a competere comprimendo il lavoro.”
E che la sinistra europeista, pur animata da intenti modernizzatori, abbia partecipato alla costruzione di questo equilibrio imperfetto, oggi oggetto delle sue stesse critiche.
Ma le contraddizioni non si fermano qui:
- Economica, perché si invoca la crescita dei salari ma si accettano regole che li legano alla produttività stagnante.
- Politica, perché si accusano i governi nazionali di impotenza senza mettere in discussione i vincoli che li rendono tali.
- Giuridica, perché si chiede allo Stato di intervenire sui salari mentre la Costituzione e il diritto europeo gli negano quella facoltà.
- Culturale, perché si continua a confondere la stabilità dei conti con la prosperità delle persone.
L’Europa ha reso virtuoso il bilancio, ma sterile la retribuzione.
Finché non si riconoscerà che il lavoro è la vera misura della dignità economica, e non una variabile di aggiustamento dei conti pubblici, resteremo prigionieri di un’idea di ordine che ha smarrito la giustizia.