L’escalation del wokismo: la mutazione linguistica che ha contagiato il mondo

C’è una mappa che racconta meglio di mille editoriali cosa sia successo al linguaggio dell’informazione negli ultimi vent’anni. È una tabella pubblicata dal ricercatore David Rozado, che ha analizzato l’utilizzo di parole come “razzismo”, “sessismo”, “omofobia”, “transfobia”, “islamofobia”, “antisemitismo” e le rispettive forme aggettivali nei media di tutto il mondo dal 2000 al 2021. 

Uno studio meticoloso, che copre oltre trenta Paesi e che, nella sua rappresentazione grafica, risulta drammaticamente esplicita. Perché mostra in modo inequivocabile come, in una manciata di anni, il lessico woke abbia colonizzato la stampa internazionale, travolgendo ogni differenza culturale, politica o geografica.

È come se un interruttore si fosse acceso, più o meno intorno al 2010, e da quel momento i giornali abbiano iniziato a usare certi termini con una frequenza sempre crescente. Non una crescita spontanea, fisiologica, ma una vera e propria impennata. Verticale e sincronizzata. 

I Paesi anglosassoni sono stati i primi a innescare la miccia – Stati Uniti in testa – e poi via via tutti gli altri: dal Canada alla Nuova Zelanda, dall’Irlanda all’Australia, passando per Francia, Germania, Italia, Brasile, Sudafrica, fino ad arrivare perfino a nazioni autoritarie come l’Iran o il Qatar. In pochi anni, lo stesso vocabolario ha preso il sopravvento ovunque, come se fosse stato scaricato da un unico server culturale globale.

La domanda che dobbiamo farci è molto semplice: cosa ha davvero innescato questa esplosione linguistica? La risposta ufficiale è sempre la stessa: maggiore consapevolezza, diritti civili, progresso. Ma se fosse davvero così, perché questa “consapevolezza” si è tradotta in una colonizzazione linguistica tanto uniforme da apparire sospetta? Non stiamo parlando di un lento processo di maturazione culturale, ma di una rivoluzione semantica pianificata, dove le parole hanno cessato di descrivere la realtà per iniziare a deformarla.

Negli Stati Uniti, i dati sono impressionanti. Le curve salgono in modo esponenziale, in perfetta sincronia con la diffusione dei social media, il rafforzarsi dell’ideologia progressista nei campus universitari, e la polarizzazione politica seguita all’elezione di Donald Trump. Il lessico woke non è più solo uno strumento descrittivo: è diventato un’arma. Una nuova ortodossia. Un codice morale obbligatorio. 

Se non usi quelle parole, sei fuori. Se le contesti, sei un nemico. La stampa, che avrebbe il compito di vigilare sui poteri, ha finito per diventare il braccio armato di un nuovo conformismo, in cui il bene e il male vengono decisi a colpi di hashtag e linee editoriali imposte dall’alto.

E non è un fenomeno confinato agli Stati Uniti. Il Regno Unito, il Canada, l’Australia: tutti Paesi che hanno replicato lo stesso schema. La narrativa è sempre quella: inclusione, uguaglianza, rispetto. Ma il risultato è l’opposto: esclusione di chi non si allinea, disuguaglianza di trattamento tra chi la pensa diversamente, mancanza di rispetto per chi dissente. La lingua è diventata una clava. Le parole, un lasciapassare o una condanna.

In Europa, la mutazione è stata un po’ più lenta ma altrettanto inesorabile. In Italia, la curva inizia a impennarsi con qualche anno di ritardo, ma segue lo stesso andamento. Prima erano parole usate con cautela, oggi sono la base di ogni dibattito. Non esiste articolo, programma televisivo o comunicato stampa che non contenga almeno uno di questi termini. Sono diventati la liturgia quotidiana del pensiero dominante. Chi prova a uscire dal coro viene subito etichettato: razzista, omofobo, sessista, complottista, fascista. Non serve discutere le idee: basta neutralizzare il dissidente col vocabolario della nuova religione civile.

Eppure, non sono le parole in sé a essere il problema. Nessuno nega che razzismo o omofobia esistano. Il punto è come queste parole vengono usate. La loro onnipresenza ha svuotato di senso la realtà, trasformando ogni sfumatura in uno scontro tra bene e male. 

Una ragazza che critica un uomo biologico che gareggia nei 100 metri femminili diventa “transfobica”. Un professore che chiede rigore accademico diventa “razzista”. Un padre che educa i figli alla differenza tra uomo e donna viene accusato di “sessismo”. Non siamo più nel campo della giustizia sociale, ma in quello della manipolazione sistemica del linguaggio.

La tabella di Rozado è un termometro di questa mutazione. Mostra chiaramente che non si tratta di una sensibilità emergente, ma di un progetto egemonico. E come ogni progetto egemonico, ha bisogno di un linguaggio unico, di parole totemiche, ripetute all’infinito fino a sostituire il pensiero. 

È l’alfabeto del wokismo, che si è imposto come nuova lingua franca dell’Occidente. Una lingua in cui l’identità ha più valore della verità, la vittimizzazione più peso della responsabilità, e l’emozione prevale sistematicamente sulla ragione.

Ora, potremmo far finta di nulla. Potremmo dire che è solo una moda, che passerà. Ma i numeri ci dicono il contrario. Questa trasformazione è già avvenuta. Sta già influenzando il modo in cui scriviamo, parliamo, pensiamo. E soprattutto: in cui giudichiamo gli altri. Perché quando il linguaggio diventa uno strumento di potere, chi controlla il linguaggio controlla anche la realtà. O almeno, la sua percezione.

Una ricerca che ci dice che non stiamo solo cambiando il modo in cui raccontiamo il mondo. Stiamo cambiando il mondo attraverso il modo in cui lo raccontiamo. E che è giunto il momento di ribellarci. Di riprenderci le parole. Di tornare a usare il linguaggio per descrivere la realtà, non per piegarla a un’agenda ideologica. Perché se le parole non sono più utilizzate per rappresentare la verità, allora diventano propaganda.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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