“Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.” Così recita il primo paragrafo dell’art. 21 della Costituzione italiana, non prevedendo, nel seguito, alcun “se” o “ma” quale limitazione se non per gli eventuali delitti a mezzo stampa previsti dalla legge.
Ma siamo così sicuri che questo sia vero?
A Londra, in Hyde Park, esiste una zona chiamata Speakers’ Corner dove chiunque può tenere un comizio o solo un discorso su qualsiasi argomento l’oratore voglia, e sta alla gente decidere se ascoltarlo o meno. Benché spesso la zona ospiti persone comuni, lì sono stati ospitati anche interventi di personaggi come Karl Marx, Lenin, George Orwell e molti esponenti di partito durante le campagne elettorali.
Un tempo quello era il simbolo della libertà di parola nel mondo, una libertà data quasi per scontata in Occidente. Come tutto quello che si crede naturale o acquisito, è stata sottovalutata tanto che, oggi, si trova in pericolo quasi ovunque.
Non si parla dei reati di opinione, per un liberale assai odiosi, che ancora esistono in Italia e si nascondono dietro limitazioni, pur condivisibili nella ratio, come il divieto di apologia di reato o di istigazione a delinquere ma che potrebbero, poi, per estensione essere applicate in molti casi di critica, anche motivata benché feroce, e trasformarsi addirittura in un’incriminazione, seppur si tratti di un’ipotesi non certo comune. Si parla, invece, di un’intolleranza crescente che si sta diffondendo verso chiunque non sia allineato al pensiero di una certa fazione, tempo per tempo dominante in un qualche settore. Questo fa scattare censure, insulti, sberleffi fino addirittura alle minacce se non peggio.
Sono molto indicativi gli interventi di Daniele Capezzone, direttore editoriale di Libero, e di Tommaso Cerno, direttore de Il Tempo, in Commissione Anti-discriminazioni del Senato lo scorso 14 ottobre. Lì hanno denunciato, in un contesto ufficiale, il clima d’odio nei loro confronti che, per aver esercitato il loro diritto di opinione, è sfociato in insulti e addirittura in minacce.
La cosa, però, non è limitata solo al giornalismo d’opinione, ma si riflette sempre di più in tutta la società, soprattutto quando si toccano argomenti sensibili come la questione di Gaza.
Ecco, ben più delle discussioni sul politicamente corretto di qualche anno fa o sul wokism più recenti, che pur crearono una “bolla” di argomenti ma pure di parole “proibite” in articoli, discorsi o dibattiti, abbiamo visto, in questi mesi, come la questione relativa a Gaza sia stata ancor più polarizzante. Ha creato un clima molto difficile da gestire anche solo nell’esprimere un’opinione che “non piace alla gente che piace”.
Dagli sfottò alle contestazioni fino alla guerriglia urbana per contestare una partita di calcio, sembra sempre più che la libertà di parola, anche per dire strafalcioni, idiozie o punti di vista divergenti da una certa narrazione dominante, sia diventata un tabù. Chiunque vi si ponga contro, anche fosse un leader di governo, finisce per essere tacciato come un criminale o, quantomeno, un complice di indicibili delitti contro il popolo o, addirittura, contro l’umanità.
Nel frattempo, in altri casi, si tollerano bufale o ricostruzioni al limite della verosimiglianza perché “così è”, perché dette da un esperto (magari con il battesimo come unico titolo valido di studi e a volte nemmeno quello) o perché rivolte verso un “nemico”, tempo per tempo visto nel premier del proprio paese, nel leader dell’opposizione, nel presidente degli USA, nello stato genocida ma solo se questo argomento abbia un’esposizione mediatica sufficiente a far scattare un qualche sentimento di indignazione.
Ogni obiezione, relativa a quanto accada nel resto del mondo o alla parzialità delle informazioni su cui si strutturano le opinioni, viene liquidata con un laconico “e i marò” oppure con un’accusa di complicità in questa o quella nefandezza, anche solo morale.
Si è persa, in buona parte della gente, la capacità di dibattere, di contraddire, di argomentare, per concentrarsi sempre più su posizioni assolutistiche o, addirittura, fideistiche. Tanto da ritenere la possibilità di avere un’opinione contraria sia qualcosa di malvagio e di censurabile, anche fino alle estreme conseguenze.
Ora, fermo restando che un limite alla libertà di parola debba esistere e che questo si possa esplicitare in una declinazione di quello che libertari come Murray Rothbard o Robert Nozick identificavano nel NAP (Non-aggression principle), quell’idea che vieterebbe l’uso della forza in prima istanza contro persone o proprietà altrui e consentirebbe solo la difesa proporzionata a un’aggressione subita. Sarebbe necessario fermarsi un secondo per riflettere sul perché un principio cardine della democrazia, oggi, sia così poco tollerato proprio da chi si definisca un difensore della democrazia stessa e dei diritti umani.
La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’articolo 10, tutela esplicitamente questa libertà con limiti chiari per la sicurezza nazionale o la prevenzione del disordine e negli USA il Primo Emendamento, in passato, ha protetto casi emblematici come quello degli studenti che indossarono braccialetti neri a scuola per protestare contro la guerra in Vietnam, affermando il diritto di espressione anche per i più giovani, questi esempi mostrano come la tutela attiva contribuisca a mantenere vivo il dibattito, spingendolo ad essere aperto e costruttivo.
Perdere la libertà è un attimo, è riconquistarla che, poi, diviene un’opera eroica e non scontata, come sanno tutti coloro che abbiano lottato o stiano lottando oggi per ottenerla. Forse è il caso, adesso, che tutto l’Occidente, che per decenni ha rappresentato il pilastro per la difesa della libertà, smetta di credere che questa sia una cosa acquisita e intoccabile, per preservarla il più a lungo possibile.