Il sistema giudiziario italiano, da decenni crocevia di tensioni, abusi e battaglie ideologiche, è giunto a un punto di rottura. Il prestigio di una magistratura che ha avuto una storia gloriosa – basti pensare all’eroismo di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella lotta alla mafia – oggi è compromesso da crepe profonde: autoreferenzialità, privilegi, sprechi e un senso diffuso di impunità che mina la fiducia dei cittadini e tradisce lo spirito repubblicano.
Qualche giorno fa, a Palermo, abbiamo commemorato il 33° anniversario della strage di via D’Amelio. Ricordando Borsellino, non possiamo ignorare che fu ostacolato non solo dalla mafia, ma anche da resistenze interne alla magistratura. Lo disse lui stesso, lo confermò Falcone. Le loro indagini davano fastidio anche a colleghi in toga.
È lo stesso tipo di ostilità che ritroviamo nelle parole del “Picconatore” Francesco Cossiga: «l’ideale dei magistrati è che le leggi le facciano loro».
Questa affermazione, contenuta nel libro “Fotti il Potere” di Andrea Cangini, coglie il cuore del problema. Quando un organo dello Stato pretende di esercitare un potere che non gli spetta, siamo di fronte a uno squilibrio che non può essere ignorato. E la fermezza con cui viene osteggiata la riforma Nordio dimostra quanto questo squilibrio sia reale.
I fatti parlano chiaro. Non parliamo di simboli, ma di segnali concreti. Il buco da 590.000 euro nei conti dell’ANM, accumulato tra convegni extralusso, catering e cachet per ospiti selezionati, non è solo una questione di bilancio. È il riflesso di una cultura autoreferenziale che si è radicata dentro un ordine che avrebbe il dovere di rappresentare sobrietà e rigore. Un’associazione che si propone come garante della legalità, ma gestisce le proprie risorse con disinvoltura e opacità, è la stessa che oggi guida la resistenza contro una riforma che chiede trasparenza, rotazione, meritocrazia e responsabilità. È il paradosso di un sistema che rifiuta ogni cambiamento per non perdere il controllo.
Cossiga lo denunciava con chiarezza: la magistratura si è «arbitrariamente trasformata da ordine in potere», invadendo campi che spettano alla politica e al Parlamento. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
L’inchiesta contro Clemente Mastella che fece cadere il governo Prodi nel 2008. L’accanimento giudiziario contro Bettino Craxi perfino quand’era in punto di morte. Le infinite vicende giudiziarie che hanno colpito Silvio Berlusconi – a partire dalla condanna del 2013 nel caso Mediaset, poi in larga parte smontata – e l’uso sistematico dell’avviso di garanzia come strumento di delegittimazione. E poi e il caso Open di Matteo Renzi, risolto con una nullità di fatto per mancanza di prove decisive e il processo contro Matteo Salvini per il caso Open Arms, chiusosi con un’assoluzione netta ma subito impugnata dai PM di Palermo.
E ancora le rivelazioni di Luca Palamara, che ha ammesso – senza alcun imbarazzo – che le nomine e le carriere all’interno della magistratura sono da anni gestite secondo logiche di corrente e non di merito.
Nel 2024, il giudice Marco Patarnello ha scritto che Giorgia Meloni «non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche». In un sistema sano, sarebbe un dato scontato. In quello attuale, diventa un problema. Il fatto che Meloni sia non ricattabile è percepito come un’anomalia. Ed è proprio questa anomalia che spaventa chi ha fatto della magistratura un terreno di potere.
Falcone e Borsellino lo avevano capito. Erano odiati dalla mafia, ma anche isolati da alcuni colleghi. Non erano comodi. Erano liberi. E chi è libero dà fastidio. Oggi, quel tipo di libertà lo ritroviamo in chi ha il coraggio di sostenere una riforma che toglie al sistema il suo scudo: l’impunità.
La riforma Nordio non politicizza la magistratura. Tenta di riportarla dentro i suoi confini costituzionali. Introduce trasparenza, rompe i meccanismi di cooptazione, limita la possibilità di costruire carriere sulla base dell’appartenenza a una corrente. Propone un Consiglio Superiore della Magistratura che non sia più un organo autoreferenziale, ma uno strumento di garanzia e responsabilità. E questo, per chi ha costruito il proprio potere sulla chiusura, è intollerabile.
La verità è semplice: oggi al governo c’è un Presidente del Consiglio che non ha debiti né paure, e per questo motivo rappresenta una minaccia per chi, da anni, controlla i meccanismi decisionali senza legittimazione democratica. La riforma fa paura perché rompe un equilibrio che ha favorito pochi e danneggiato tutti.
Come ammoniva Cossiga: «quando un ordine o un potere tracima e invade gli spazi vitali dei poteri limitrofi, si trasforma da ordine in potere». Il tempo corre. E l’Italia non può più tollerare una giustizia ostaggio di logiche di fazione, sprechi e interessi opachi.
È il momento di agire. Per rispetto della verità, della democrazia e dei cittadini. Solo così potremo dire di aver raccolto l’eredità di chi, come Falcone e Borsellino, ha avuto il coraggio di indicare le storture. E di affrontarle.