Non era ancora terminato il vertice bilaterale tra il Presidente Donald Trump ed il suo omologo russo, Vladimir Putin, che già si era scatenata, come c’era da aspettarselo, una ridda di commenti su come poteva essere andato il summit, su chi avesse vinto o perso, sulle conseguenze immediate sull’andamento della guerra in corso da oramai tre anni e mezzo.
Una certa delusione la si è avvertita in molti commenti di analisti geopolitici, forse speranzosi in un incontro, se non risolutivo, almeno portatore di un cessate il fuoco. Purtroppo al momento non è stato così, ma quello del non raggiungimento di risultati immediatamente tangibili era tra le possibilità più concrete.
Una parte cospicua di commenti invece si è soffermata, criticandola aspramente, sulla presunta accoglienza troppo amichevole che il presidente americano avrebbe riservato al suo omologo russo. Qualche politico italiano ha definito la stessa come una “sottomissione adorante di Trump a Putin”; altri hanno parlato di accoglienza esagerata, con tanto di onori e tappeto rosso ad un dittatore; altri ancora più critici, come parte della stampa ucraina, ha bollato l’incontro come un “Summit disgustoso, vergognoso, inutile”, anche e soprattutto ricordando l’accoglienza molto più severa che Trump riservò al leader ucraino Zelensky in visita alla Casa Bianca nel febbraio scorso.
La diplomazia e la negoziazione
Eppure, se alcune di queste critiche possono essere considerate accettabili se provenienti dalla pancia della gente comune, un po’ più di accortezza nei giudizi sarebbe richiesta da chi fa analisi dei conflitti per professione. Questi probabilmente dimenticano, o ignorano, che una negoziazione si basa, specialmente quando c’è da ricostruire un rapporto di fiducia tra le parti che il Presidente Biden aveva ridotto ai minimi termini tra insulti e minacce, su processi di mediazione molto delicati e che portano ad affrontare le controversie attraverso meccanismi e strategie ben note ai veri esperti di diplomazia. Anche perché se dovessimo ridurre il destino del mondo unicamente a presunti capricci umorali dell’inquilino della Casa Bianca, allora si farebbe un torto all’intelligenza dell’intero genere umano.
Il ruolo del linguaggio nella risoluzione del conflitto
Il linguaggio è uno degli strumenti principali per facilitare la risoluzione dei conflitti, perché permette di superare le antipatie personali e le incomprensioni, di interpretare le percezioni e i bisogni delle parti e facilitare una risoluzione attraverso il dialogo. In questo senso, si distinguono tre forme primarie di linguaggio:
scritto;
non verbale;
orale.
Nel caso di Anchorage analizziamo l’aspetto che ci interessa di più, il linguaggio non verbale adottato da Donald Trump.
Il linguaggio non verbale include gesti, espressioni facciali, postura, contatto visivo e distanze, che possono fornire informazioni uniche sulle emozioni, sulle reali intenzioni e sulle reazioni nascoste, al di là delle parole dette. Quando il Presidente Trump va incontro allo Zar e poi si ferma ad aspettarlo con un largo sorriso, quando viene srotolato un tappeto rosso come si conviene ad un Capo di Stato, quando lo saluta amichevolmente, quando si annullano le distanze invitandolo a bordo della limousine presidenziale, il presidente americano non si sta sottoponendo ad un vassallaggio verso il russo, come ironicamente e superficialmente scritto, ma sta dicendo a Putin che l’era Biden è finita, assieme a tutto l’apparato dei democrat americani, e che di lui può fidarsi per iniziare un cammino condiviso seppur irto di ostacoli, perché lo rispetta in quanto a capo di un grande paese, comunque la si voglia pensare della Russia come nazione.
Trump, a differenza di Biden e di alcuni politici europei, adotta con Putin un linguaggio definito comunicazione non violenta (NVC) sviluppata dallo psicologo americano Marshall Rosenberg, e che è definita come: “un approccio che promuove l’espressione onesta e l’ascolto empatico, con l’obiettivo di creare legami umani autentici e risolvere i conflitti in modo pacifico”. Ovviamente, agli antipodi di una comunicazione non violenta c’è quella considerata violenta, a sua volta caratterizzata: “dall’uso di un linguaggio aggressivo, includente minacce, insulti, etichette dispregiative e squalifiche, e tende a inasprire i conflitti, a erodere la fiducia e a danneggiare le relazioni”.
L’inizio di un cammino
Ovviamente questo non è che l’inizio di un percorso, che non può certo trovare la sua soluzione unicamente con un approccio assertivo e riconciliatore, ma rappresenta il primo fondamentale passo per ricucire i rapporti umani, che sono letteralmente indispensabili per la risoluzione dei conflitti tra stati sovrani.
Il futuro ci dirà se quanto seminato da Trump sarà stato utile, contribuendo al processo di pace tra Russia e Ucraina, o se dietro i sorrisi e le strette di mano prevarranno gli egoismi e la volontà di continuare un conflitto oramai senza senso.