La Voce del Patriota intervista Spartaco Pupo.
Classe 1974, originario di Cosenza, Pupo è professore di Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria, è tra i massimi esperti italiani di conservatorismo e autore di numerosi libri, traduzioni e raccolte di saggi su alcuni dei principali temi e figure intellettuali della cultura conservatrice occidentale, da Hume a Nisbet, da Oakeshott a Quigley. È editorialista di “Libero” e collaboratore di varie riviste di cultura politica.
In questa intervista approfondiamo il tema dell’oicofobia: coordinate per analizzare il fenomeno, chi colpisce e il perché della sua origine e della sua diffusione, e soprattutto perché ad oggi l’oicofobia è ancora sconosciuta, a livello accademico e non.
Partiamo dal titolo del suo ultimo libro: “Oicofobia. Il ripudio della nazione” (Eclettica, 2023). È questa una tendenza molto diffuso nella realtà, ma troppo poco discussa. Perché?
Perché al contrario di altri disturbi collettivi, come la xenofobia, l’omofobia, l’islamofobia ecc., tanto cavalcate dalla sinistra e dai media, l’oicofobia colpisce soprattutto l’élite intellettuale che elabora, prescrive, sperimenta e indirizza piste di ricerca, modelli di pensiero collettivo e campagne pubblicitarie al servizio del mainstream. È molto difficile che chi soffre del disturbo ammetta di esserlo e sia interessato alla ricerca delle cause che la producono. Mentre le altre fobie possono colpire chiunque, l’oicofobia, che è l’odio smisurato nei confronti del “Noi”, della propria casa, intesa come famiglia, comunità e nazione, è tipica di persone acculturate e dotate di un ego smisurato, da una parte, e potatori di un complesso di inferiorità per tutto ciò che è “altro” da noi, dalla nostra cultura e tradizione. Per questo disinteresse, misto al timore di dover fare mea culpa dinanzi ai disastri che provoca, l’oicofobia è rimasta pressoché sconosciuta specialmente a livello accademico, il che è abbastanza grave. Il mio libro intende colmare questa lacuna.
L’oicofobo vuole disfarsi di qualsiasi tipo di confine. Ma è davvero giusto e possibile non avere confini? Anche e soprattutto quando parliamo di Stati, di realtà politiche?
È dai tempi degli illuministi tedeschi e del cosmopolitismo etico settecentesco che gli oicofobi sognano una comunità universale dell’umanità che superi gli angusti confini territoriali dei singoli Stati. Il ripudio intellettuale della nazione, che è funzionale a questo scopo, ha aperto la strada al progetto globalista per l’abolizione dei confini e l’adozione di una lingua internazionale che è molto simile a quella usata nelle transazioni commerciali. Conseguenza dell’inclinazione a sentirsi depositari di una conoscenza del mondo che non ammette confini tra le diverse civiltà è l’esotismo con cui gli oicofobi si prendono cura degli “altri”, semplicemente perché tali, odiando se stessi, il proprio vicino, la storia nazionale, l’identità locale, insomma la propria narrazione collettiva. Gli oicofobi sperano in uno Stato mondiale ma dimenticano che agli uomini viene naturale ricercare ovunque quell’omogeneità necessaria all’esistenza, nei confini politicamente e giuridicamente definiti della nazione, di una comunità di persone che vive lo stesso insieme di costumi, credenze e linguaggi simbolici. Il confine non è una mera delimitazione artificiale, ma è ciò che permette una pacifica convivenza tra vicini diversi e che non rinunciano all’orgoglio nazionale, al sentirsi partecipe della “grandezza” della propria nazione. Il confine identifica un’attenzione nei confronti di se stessi che non è mai individuale, ma collettiva. A questo era arrivato persino Freud. E aveva ragione Carl Schmitt quando ammoniva che il mondo politico è un “pluriverso” e non sarà mai universo. Che gli uomini non possono fare a meno dello Stato lo dimostra il numero di Stati che nel mondo aumenta sempre di più. Lo Stato nazionale, col suo territorio e i suoi confini a difesa della sua identità, è il più bel regalo dell’Occidente al resto mondo.
Oggi in Italia con Giorgia Meloni e in Europa con l’affermarsi di vari leader conservatori c’è la possibilità di contrastare questa oicofobia sempre più diffusa e radicata?
Nel mio libro Giorgia Meloni è ricordata come il primo leader ad avere introdotto l’uso del termine nazione nel linguaggio politico corrente. Lei lo utilizza spesso come valore intrinseco alla democrazia, espressione di un bisogno di appartenenza e protezione di ogni cittadino. Già in un libro del 2011, Meloni considerava impropria la sostituzione di nazione con paese, che è un mero contenitore di interessi, mentre la nazione è condivisione, destino comune che stimola alla partecipazione, oltre ogni particolarismo. Il conservatorismo, in Europa e non solo, da sempre si contrappone al processo di confisca che il progressismo porta avanti, sin dalla fine del ‘700, nei confronti dei legami di prossimità, di tutte le forme di comunità e del Noi nazionale. Gli oicofobi hanno certamente tutto da perdere dall’affermazione di una forza conservatrice.
Passiamo al tema della nazione, su cui molto si dibatte. Secondo lei, oggi, si può ancora parlare di nazione, ha ancora senso farlo?
Lo si deve fare perché, checché ne pensino gli oicofobi, il pericolo non è tanto il nazionalismo, che pure è stata l’ideologia di liberazione dei popoli, quanto l’internazionalismo. È ormai certo che i tentativi di sostituire, nell’esperienza politica concreta come nella speculazione intellettuale, la fedeltà nazionale e il sano patriottismo con ideali sovranazionalistici aumentano i livelli di indigenza delle popolazioni. Basti ricordare che le forme di giurisdizione universale con cui storicamente si è cercato di trascendere lo Stato nazionale o si sono rivelati dei totalitarismi sanguinari, come l’Unione Sovietica, o si sono concluse in assurdi burocratismi, come dimostra l’esperienza dell’Unione Europea. Da questo punto di vista, la nazione è un baluardo in difesa della democrazia.
Senza la nazione, senza quel senso di appartenenza comune, ci sarebbero state ugualmente le opere, le ricchezze che abbiamo oggi, in termini letterari, culturali, architettonici e altro?
La nazione è cultura, ricchezza, letteratura, bellezza. La nazione è potenza immaginativa e creativa. La denazionalizzazione che la sinistra affida alla Cancel culture per giustificare il sogno utopico di una cultura universale al posto delle identità nazionali è un’astrazione priva di senso. Ma il primitivismo culturale cui ambisce attraverso questa forma di totalitarismo dolce è molto pericoloso per la tenuta della democrazia e della libertà.
In definitiva, oggi è più rivoluzionario l’oicofobo o il patriota?
Il secondo, senza dubbio, perché deve vincere la resistenza, in verità sempre più scomposta e irriflessiva, di quanti non sono disposti a cedere neanche un grammo dell’enorme potere politico ed economico, prima ancora che culturale, sin qui accumulato sulla base del pregiudizio oicofobico che ha permesso loro di selezionare e promuovere, ma anche di escludere, emarginare e purgare in maniera pressoché indisturbata. Quella dei patrioti è una “rivoluzione conservatrice”, che non è affatto un ossimoro: è il ritorno all’uomo, il superamento del millenarismo escatologico di questo utopismo universalista e oicofobo che produce solo esseri sradicati, alienati e drogati.
Caro Spartaco, ti ringrazio per aver dato voce a quanti amano la propra nazione.
Però – c’è sempre un però, non avermene male – secondo me non c’era bisogno di definire una nuova patologia, la “oicofobia”.
L’origine di questo pensiero criminale, contrario alla civiltà che millenni di storia e sacrifici errori e lacrime, ma anche grandi progressi, hanno costruito nel nostro meraviglioso occidente, è molto chiara.
Il comunismo ha sempre professato che il tuo nemico è in casa tua. Non è lo straniero ma il tuo capitalista che ti sfrutta. Il colpevole dei tuoi problemi è in casa tua.
Non importa che gli abitanti delle ex colonie europee ora vedano l’Europa come unico approdo di salvezza, i colpevoli sono gli europei, che, nella concezione comunista, comunque camuffata, con il loro capitalismo hanno rapinato gli altri paesi.
Allora secondo questa ideologia dobbiamo considerare i disperati che cercano di invadere il nostro paese (perdona, qui ci può stare) come dei “liberatori”, non come dei disgraziati che non potendo risolvere i loro problemi a casa loro cercano di esportarli a casa nostra.
A questa impostazione ideologica si è aggiunta, nel corso della storia, la vicenda dell’Unione Sovietica, vista come salvezza “esterna” ai mali del capitalismo, impersonati dal “Grande Satana” USA.
Per tanti anni nel dopoguerra era diffuso il detto – e il sentimento – “Ha da venì baffone”.
Visione inossidabie, al punto da gettare la maschera: un paese incivile, dominato da una dittatura politica e religiosa come la Russia, ha tranquillamente ereditato agli occhi dei comunisti il testimone dell’odio contro l’occidente ed il favore della sinistra.
Per la cronaca: la Russia sembra essere il riferimento ideale per tanti fanatici dell'”uomo forte”, anche di estrazione opposta ai comunisti.
Oicofobia? ci sono ragioni storiche e politiche con nome e cognome che spiegano in Italia questa tendenza.
Meriterebbe un discorso specifico quanto accade negli USA, ma non credo possa essere assimilato “tout court” a quanto avviene da noi.
Con affetto.
Alessandro