Il cortocircuito, ieri sera, è andato in diretta in mondovisione. Pochi istanti prima del fischio d’inizio di Italia-Galles tutti i giocatori della nazionale del Regno Unito procedono – a copione – nel “rito” globale di espiazione: si inginocchiano, in nome del gesto ispirato dal movimento anti-razzista Blacks lives matter (non esattamente un collettivo pacifista…) dopo l’assassinio di George Floyd. I gallesi vengono emulati, dopo qualche istante, da sei giocatori della Nazionale italiana (“stranamente” mai protagonisti di tale gesto, fino a quel momento). Cinque azzurri, però, restano in piedi. Spezzano l’incantesimo, lo spot facile-facile e politicamente corretto, tutelando – consapevolmente o no, non importa – un principio sacrosanto: l’Italia, che sul rettangolo di gioco e davanti a decine di milioni di telespettatori è rappresentata dagli undici in campo, non si inginocchia. Non può e non deve.
L’Italia non si inginocchia “per sport” perché, semplicemente, non è chiamata a riconoscere alcuna autorità – morale, religiosa e politica – che non appartenga al destino profondo del proprio popolo. E se è già gravissimo e pernicioso che i suoi governi abbiano assecondato negli anni ingerenze e prepotenze da parte di potenze straniere e potentati sovranazionali, figuriamoci, poi, se dovesse essere chiamata a farlo oggi persino in nome di una vicenda tragica che affonda le sue radici nelle contraddizioni irrisolte e specifiche di un’altra nazione.
Già, l’Italia in questa vicenda non ha alcunché di cui vergognarsi o da farsi perdonare. E dunque non si inginocchia, non certo per indifferenza nei confronti degli afroamericani ma perché ci sarebbero decine di “cause” di dimensioni oggettivamente più ampie sulle quali occorrerebbe farlo, se proprio fosse necessario per dare un segnale. Pensiamo alle persecuzioni dei cristiani nel mondo. Alla repressione delle minoranze in Cina. E a quelle in Birmania. O ai tanti casi di violenza che riguardano le donne, giovanissime, costrette a subire la prepotenza tribale di un certo islamismo. Per non parlare delle vittime del terrorismo legate al jihadismo internazionale. L’elenco, putroppo, è lungo.
Assecondare, invece, il copione messo in scena dai vip milionari dello sport americano, senza considerare che con la campagna – coccolata dal mainstream – dei Blm sono proliferati negli States (e non solo) gli episodi di violenza diffusa, le pratiche neo-talebane della “cancel culture”, i “muri” culturali, non significa di certo esercitare spirito critico. Significa, al contrario, accettare di sottomettersi al codice etico del luogocomunismo internazionalista che ha preso di mira – per un’incredibile e pericolosissima sindrome autorazzista – proprio i contrafforti culturali e storici della società occidentale. Gli stessi che hanno permesso lo sviluppo e l’armonizzazione nei secoli del sistema di vita democratico.
Ecco perché non essersi inginocchiati davanti a questa palese strumentalizzazione – una porticina che, come abbiamo visto, spalanca ben altri messaggi – non è stato solo un sacrosanto gesto di disobbedienza alla cappa banale del conformismo. È stato un preciso compito che cinque italiani hanno assolto davanti a tutta la Nazione. Con un messaggio subliminale: si può ancora stare in piedi.