C’era una volta l’epopea dei PIGS, che non sono i tre porcellini dell’omonima favola, ma il gruppo di stati, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, che destavano forti preoccupazioni per la tenuta della finanza pubblica, per via di indebitamento elevato unito a una spesa fuori controllo.
L’acronimo nacque, coniato dalla stampa anglosassone, nel 2007 allo scoppio della crisi economica legata ai debiti subprime, per indicare quei paesi europei. Solo pochi anni dopo, nel 2011, questo fu modificato in PIIGS, inserendo anche l’Irlanda, che fu travolta dalla crisi dei debiti sovrani. Tra tutti furono proprio l’Italia e la Grecia a costituire la preoccupazione massima per gli investitori. Fu proprio quest’ultima a essere l’unica obbligata a un piano “lacrime e sangue”, per evitare un default che avrebbe potuto trascinare nel baratro addirittura la moneta unica europea.
Negli ultimi anni anche l’Italia non ha avuto certamente una vita facile. Ha danzato per anni intorno al limite minimo, nella scala dei rating, per essere considerata nel gruppo degli emettitori di obbligazioni a medio basso rischio, e vedere etichettati i suoi titoli di stato come junk bond.
Un attimo. Emettitore di obbligazioni? Non un giudizio sull’economia generale dello stato? Cos’è veramente un rating allora?
Queste sono le domande che, leggendo gli articoli sulle agenzie di rating, tempo per tempo indicate come giudici autorevoli o come speculatori senza scrupoli da alcune fazioni politiche e perfino da qualche magistrato, una persona avveduta, che non mastichi di finanza, dovrebbe porsi.
Il rating altro non è che un giudizio sulla solvibilità del debito emesso da una società o da uno stato. In pratica va a valutare quale sia il rischio relativo all’acquisto di un’obbligazione da parte di un investitore al momento dell’elaborazione. Nonostante qualche differenza nella formulazione tra le varie agenzie esistenti, si può definire, con una buona approssimazione, i giudizi A come quelli migliori, i B più rischiosi ma ancora accettabili, i C quelli che descrivono categorie di bond speculativi, quindi a elevato rischio e altro rendimento, e D quelli in default.
Non è un giudizio sulla solidità o sulla redditività di un’azienda, ma sulla sua capacità di ripagare i debiti. Infatti Apple, ad esempio, per anni non ebbe alcun rating, finché non decise di emettere bond, diciamo, per ragioni di pianificazione fiscale.
E Lehman allora?
Ecco la grande obiezione che indica un caso che ha fatto storia, e ha obbligato anche una certa revisione nell’elaborazione dei rating. Lehman Brothers era una banca d’affari molto famosa e rinomata, e che, improvvisamente, si trovò in una situazione di insolvibilità, per via di buona parte dei suoi attivi investiti in asset ad alto rendimento e illiquidi. Per evitare il fallimento dovette ricorrere al Chapter 11, la procedura di amministrazione straordinaria prevista dall’ordinamento USA, che congelò tutti i rimborsi dei bond emessi (ma che furono tutti ripagati, con gli interessi, in pochi anni, con la liquidazione della banca, va detto). Le agenzie di rating mantennero per diversi giorni dopo il crack l’A level.
Questo successe perché il rating emesso era stabilito in base alla solvibilità patrimoniale delle obbligazioni, e, da quel lato, Lehman era perfettamente in regola anche se la sua asset allocation prevedeva buona parte del capitale investito in settori illiquidi, impedendo, quindi, la pronta disponibilità di risorse per far fronte alla crisi scoppiata in quel 2008, portandola al default.
Questo ha portato a una profonda revisione dei criteri per l’assegnazione dei giudizi. Tanto che, oggi, alcune società, anche iconiche e con capitalizzazioni da capogiro, come Tesla, siano posizionate in fondo alla distribuzione dei giudizi relativi all’investment grade (Moody’s le assegna Baa3 e S&P BBB), proprio per un principio molto più prudenziale adottato nell’elaborazione dei giudizi.
L’Italia, come anticipato nell’incipit, ha una lunga storia di amore e odio con le agenzie di rating da almeno quarant’anni. Tornando indietro nei rampanti anni 80, quando il Bel Paese era, non a torto, inserito nel gotha dei paesi più industrializzati e ricchi al mondo, nel 1986 Roma ottenne il giudizio massimo, la AAA da Moody’s. Anche se il debito pubblico era, con il divorzio della Banca d’Italia dal Ministero del Tesoro, uscito di controllo, ed era aumentato del 24% in soli cinque anni, arrivando quasi all’80% del PIL, valore oggi quasi da sogno. L’economia cresceva, così come la produzione industriale e la ricchezza della popolazione. Questo permise di raggiungere la valutazione massima di solvibilità del debito.
La fine della “scala mobile” e della monetizzazione del debito permisero di vincere l’iperinflazione che caratterizzò la prima metà del decennio, dando più stabilità all’economia ma i rendimenti crescenti sui bond cominciarono ad essere un problema, tanto che l’appartenenza al ristretto club delle triple A durò poco. La stabilità della finanza pubblica, infatti, cominciò a vacillare nei primi anni 90. Questo costrinse la politica a manovre economiche “lacrime e sangue”, per ridare una certa sostenibilità al debito, ma minando così la crescita futura, che rimase stagnante per decenni.
Nonostante questo, pur con la crescita del debito al 120% del PIL, il giudizio rimase di piena solvibilità nel ristretto club delle A, con sì un downgrade, ma a Aa3 per Moody’s e AA per Fitch. Poi, per la prima, risalì a Aa2 nel 2002, quando il debito scese al 103% del PIL.
Con la crisi subprime del 2008, da cui scaturì quella dei debiti sovrani dal 2011 al 2013, arrivò il declassamento più pesante, con la discesa in “seconda classe”, con un rating a Baa2 e BBB, sempre prendendo Moody’s e Fitch come esempio.
Il livello di debito al 135% e lo spread raggiunto nel 2012 iniziarono a far tremare i mercati. L’Italia era vista come un malato grave, a livello finanziario, con il rischio di una ristrutturazione del debito per riuscire a sostenerlo. Questo comportava, di fatto, un default tecnico, come avvenne per la Grecia.
Nel 2018, infine, si arrivò al punto più basso, con il giudizio delle principali agenzie di rating a un passo dalla classificazione dei titoli di stato a spazzatura, con Baa3 per Moody’s e BBB- per Fitch. Il livello del debito e la sua servitù sembravano aver raggiunto il punto critico, spinto anche dall’estrema instabilità politica che aveva portato al governo una formazione anticasta e populista. Situazione che, spesso, aveva portato gli stati al dissesto.
Il problema è che il rating Paese, solitamente, funge da cap per quello delle obbligazioni emesse dalle aziende lì residenti, aumentando, così, anche il loro costo di rifinanziamento. Questo ne avrebbe diminuito sia la redditività sia la competitività, rischiando di innescare una reazione a catena che avrebbe potuto distruggere la stessa economia nazionale.
L’Italia ha mostrato quanto sia forte e resiliente il suo tessuto industriale, pur con certe debolezze strutturali legate alla centralità della microimpresa (come ha certificato recentemente anche la WTO): questo le ha permesso di superare anche la sua “ora più buia”, tra eccesso di tassazione, criticità logistiche, una politica economica ondivaga e non ultima la gestione opinabile di una crisi pandemica che avrebbe potuto stenderla come un pugile suonato.
I primi segnali di ripresa si videro con la creazione di un governo a maggioranza ampia e trasversale a guida di Mario Draghi. Fu con la stabilità di governo, che ha dato l’elezione dell’attuale maggioranza e la creazione del governo Meloni, con la strutturazione di politiche di bilancio ed economiche molto prudenti e improntate alla stabilità, che hanno ridato credibilità alla gestione della finanza pubblica e dato il via a una certa inversione di tendenza.
Già il cambio di outlook di Moody’s, portato a positivo nonostante il mantenimento del Baa3, l’innalzamento del giudizio di S&P e Fitch a BBB+ mostrano quanto l’attenzione verso l’Italia sia alta e che i miglioramenti siano sensibili. Questo si è visto anche sui mercati con la diminuzione continua dei rendimenti dei BTP. È stata DBRS-Morningstar, il 17 ottobre scorso, a cambiare completamente le carte sul tavolo.
L’agenzia statunitense, che pur non rientrando nel novero delle tre più influenti è molto accreditata sui mercati finanziari, ha portato il giudizio dell’Italia da BBB(high) a A(low), riportando, così, Roma nel club degli A level che aveva abbandonato ben 8 anni fa, con l’ultimo declassamento proprio da parte di DBRS. Questa ha seguito, pur con diversi anni di ritardo, il giudizio delle concorrenti.
Questo cosa significa?
La motivazione è spiegata molto bene nella nota che ha diffuso la stessa DBRS: “L’innalzamento del rating a lungo termine dell’Italia riflette la view di Morningstar DBRS secondo cui la riduzione cumulativa delle vulnerabilità nel settore bancario e il miglioramento del settore estero hanno portato a un’economia più resiliente e il consolidamento fiscale proseguirà e contribuirà almeno a stabilizzare il rapporto debito pubblico/PIL nel medio termine” e che, nonostante il rallentamento della crescita e le crescenti pressioni sulla spesa nel medio termine, la stabilità e i risultati ottenuti dal governo conferiscono credibilità al suo piano di consolidamento fiscale a medio termine. Un passo che, con il trend ora stabile, promette di tradursi in rendimenti più contenuti sui titoli di stato, spread ridotti e un flusso maggiore di capitali esteri, favorendo un rifinanziamento più agevole per imprese e famiglie.