Lo sciacallo

Giuseppe Conte è la perfetta incarnazione della politica come esercizio di trasformismo senza limiti, in cui il potere non è un mezzo per cambiare la realtà, ma un fine a cui sacrificare ogni briciolo di coerenza. Il suo ultimo gesto – pubblicare la foto di un bambino per accusare il Governo, ignorando volutamente che quel piccolo è curato da tempo in Italia – non è un semplice errore. È una scelta consapevole, cinica, lucida. Un atto di propaganda mascherato da umanità. L’ennesima dimostrazione di come la realtà, per Conte, sia sempre e solo funzionale alla narrazione del momento.

Il suo intero percorso politico è un capolavoro di opportunismo mimetico: populista con i populisti, progressista con i progressisti, nazionalista con i nazionalisti, europeista con gli europeisti. Ha giurato fedeltà al contratto con la Lega per poi innamorarsi della sinistra radicale. Ha sdoganato il pugno duro con i decreti sicurezza e subito dopo è diventato il primo testimonial dell’accoglienza a ogni costo. Ha invocato la trasparenza e poi costruito alleanze di palazzo nel buio delle stanze romane. Si è travestito da guida spirituale durante la pandemia, tra conferenze stampa pompose e slogan paternalisti, per poi lasciare il Paese impantanato nel caos del Superbonus e nell’illusione di un assistenzialismo eterno che ha minato le fondamenta economiche dell’Italia.

Il tratto distintivo di Conte è proprio questo: l’assenza totale di principi. L’ideologia è intercambiabile, le alleanze sacrificabili, le promesse un pretesto per raccattare consenso. Non importa cosa sia giusto: conta solo ciò che conviene. Ogni crisi è un’occasione per salire su un palco, ogni dramma una leva per manipolare l’opinione pubblica. Ma c’è un limite che nemmeno il peggior trasformista dovrebbe superare: quello della dignità umana. E quando si arriva a utilizzare il volto sofferente di un bambino per portare avanti una narrazione falsa, quel limite è stato calpestato senza vergogna.

Conte non ha costruito nulla. Ha solo navigato a vista tra le onde della popolarità, surfando sui trend social, adattandosi come un algoritmo impazzito al flusso del momento. Ha lasciato dietro di sé macerie istituzionali, economiche e morali. Ha spacciato il relativismo come lungimiranza, il compromesso come saggezza, l’incoerenza come capacità di mediazione. Ma sotto la patina della comunicazione plastificata, resta un leader vuoto, privo di visione, incapace di assumersi responsabilità vere. E pronto, sempre, a usare chiunque e qualunque cosa – anche un bambino – pur di restare al centro della scena.

C’è chi fa politica per lasciare un’eredità, e chi – come lui – la usa per occupare lo spazio lasciato libero dagli altri. Ma la politica non è un teatro e il dolore non è un oggetto di scena. Strumentalizzare una vita umana per qualche like o qualche voto in più non è solo sleale: è disumano. Questa non è politica, è sciacallaggio.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente di marketing digitale, docente alla IATH Academy, è autore di 9 libri. È stato inviato di Vanity Fair alle elezioni USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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