L’Occidente non lasci sola Yulia Navalnaya

L’ormai vedova di Alexei Navalny, il principale oppositore di Vladimir Putin, morto a 47 anni in una colonia penale in Siberia, ha reagito alla scomparsa del marito dichiarando di voler raccogliere il testimone della battaglia politica del più importante dissidente russo. Yulia Navalnaya, che forse già si aspettava un epilogo simile, anziché lasciarsi cadere nella rassegnazione, ha scelto, non solo di proseguire la lotta di Navalny contro l’autoritarismo putiniano e di voler andare a fondo circa un decesso avvenuto evidentemente in circostanze più che misteriose, ma di rappresentare nel mondo tutta la dissidenza russa e bielorussa i cui esponenti ancora in vita si trovano in gran parte rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza di Putin o dell’uomo forte di Minsk Alexander Lukashenko. Per una tragica coincidenza o forse no, subito dopo Alexei Navalny, è deceduto in un carcere di Minsk il giornalista bielorusso Igor Lednik, agli arresti per avere scritto degli articoli contro il presidente Lukashenko. L’Occidente tutto, Stati Uniti ed Europa, non può che aiutare questa donna coraggiosa e starle vicino in tutti i modi possibili, per ragioni sia pratiche che ideali.

Yulia Navalnaya, perlomeno fino a quando ciò le viene consentito dalle autorità di Mosca, si trova spesso all’estero, anche per fare visita alla figlia che vive e studia negli USA, allontanata dalla Russia, non solo probabilmente per garantirle un migliore futuro professionale, bensì, pure per la sua incolumità. Ma la possibilità di varcare i confini della Federazione russa non assicura alla vedova di Alexei Navalny una completa tranquillità visto che ora è lei a trovarsi nel mirino del regime di Vladimir Putin, dopo la morte del marito e soprattutto dopo aver dichiarato di voler continuare a percorrere la strada da lui tracciata, e considerato che gli oppositori dell’autocrazia putiniana rischiano la pelle anche fuori dai confini russi. Poi, le democrazie, al di là ancora della guerra in Ucraina, non possono voltarsi dall’altra parte quando un Capo di Stato, alla guida di un gigante come la Russia, che ha pure la faccia tosta di smentire seccato di essere un dittatore, ha dietro di sé una lunga lista di morti ammazzati, colpevoli solo di aver messo in discussione il suo dominio politico. Alexei Navalny non è stato certo il primo, fra i dissidenti dichiarati e quelli comunque considerati ostili dal Cremlino, a morire in un contesto foriero soltanto di dubbi, misteri e pensieri negativi. L’elenco è piuttosto lungo e ne ricordiamo i nomi più noti. Alexander Litvinenko, agente segreto russo che aveva lasciato i propri incarichi criticando i metodi brutali di consolidamento del potere di Putin, e si era rifugiato a Londra, morì nel novembre del 2006, nella capitale britannica, dopo una lunga agonia. Aveva bevuto del tè “corretto” al polonio, e da allora si comprese la capacità del regime russo di reprimere violentemente il dissenso anche all’estero.

Anna Politkovskaya, giornalista investigativa autrice di un dettagliato reportage sui crimini commessi dall’esercito russo in Cecenia, fu uccisa a colpi di pistola nell’ascensore del suo palazzo, il 7 ottobre del 2006, giorno, guarda caso, del compleanno di Vladimir Putin. La sera del 27 febbraio del 2015, in un agguato armato per strada, nelle vicinanze del Cremlino, viene ucciso Boris Nemtsov, vicepremier negli anni Novanta durante la presidenza di Boris Eltsin, di estrazione liberale e uno dei principali critici di Putin in Parlamento, contrario all’annessione della Crimea. Evgenij Prigozhin, il famigerato capo della milizia mercenaria Wagner, non sognava di certo, come Navalny, una Russia libera e democratica, ma si è ribellato al suo capo di sempre e il suo aereo è stato fatto precipitare. Ci sono anche dei sopravvissuti alle bevande “corrette” offerte dal Cremlino. Nel 2018 l’ex agente segreto russo Sergej Skripal e la figlia vengono ritrovati privi di sensi su una panchina nel sud del Regno Unito. Vengono entrambi ricoverati in gravi condizioni, ma si salveranno. Nel 2004 fece il giro del mondo il volto sfigurato da un avvelenamento di Viktor Yushenko, il candidato filo-occidentale alle presidenziali ucraine, che sfidò e sconfisse il filorusso Viktor Ianukovich. Dopo tutto questo, è davvero difficile pensare che magari Alexei Navalny possa essere scomparso di morte naturale. Anch’egli, come molte delle succitate vittime, ha subìto un avvelenamento nel 2020, che ha comportato un lungo ricovero, e, dopo quasi quattro anni, l’opera è stata completata adesso. I metodi da KGB, da cui proviene Vladimir Putin, il pugno sul cuore, la permanenza all’aperto a -27 gradi, citati da organizzazioni russe per i diritti umani e non solo dai giornali anglosassoni, cosa possono fare venire in mente se non un omicidio di Stato? Se le autorità di Mosca non stessero nascondendo nulla, avrebbero messo subito la salma nella disponibilità della famiglia. Cosa che invece non è successa e non succederà a breve. Il ricorso ai se e ai ma sembra un sentiero impercorribile.

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Roberto Penna
Roberto Penna
Roberto Penna nasce a Bra, Cn, il 13 gennaio 1975. Vive e lavora tuttora in Piemonte. Per passione ama analizzare i fatti di politica nazionale e internazionale da un punto di vista conservatore.

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