Nel centenario della nascita di Margaret Thatcher, l’Europa non celebra soltanto un’icona ma mette alla prova dell’attualità di un metodo politico a lungo discusso e studiato.
Grantham, 13 ottobre 1925: da lì parte il percorso della giovane Margaret Hilda Roberts che, passando per Oxford e per una formazione tanto rigorosa quanto concreta, diventerà la prima donna a guidare un governo europeo e la più longeva premier britannica del Novecento.
E se a cento anni dalla sua nascita, la sua eredità continua a dividere opinioni, vogliamo cogliere l’invito a rileggere, senza caricature, una leadership che rimise in moto il Regno Unito e, indiscutibilmente, lasciato un’impronta profonda nella storia della politica occidentale e mondiale.
Per comprenderne il perché, bisogna tornare alla fine degli anni Settanta. Il Regno Unito usciva dall’ “inverno del malcontento”: inflazione elevata, stagnazione, conflittualità sociale e un apparato produttivo ingessato da monopoli, sussidi e potere corporativo. Nel 1979, con l’arrivo di Thatcher a Downing Street, prese forma un’agenda che combinava disciplina di bilancio, liberalizzazioni e un vasto programma di privatizzazioni: dalla telefonia all’energia, dall’industria ai trasporti, imprese come British Telecom, British Gas e British Airways furono trasferite al mercato con l’idea, all’epoca rivoluzionaria, di allargare la proprietà, responsabilizzare il management e riportare i servizi sotto il controllo di utenti e azionisti-cittadini.
Di quella stagione resta traccia nella documentazione parlamentare e nelle analisi che ne hanno valutato impatti e limiti: si potrebbe discutere dei costi di transizione, ma il dato di lungo periodo è la modernizzazione di un sistema che aveva smarrito competitività e fiducia. Le sue politiche economiche, dure e spesso impopolari, provocarono nel breve periodo una profonda recessione e un’impennata della disoccupazione. Tuttavia, nel lungo termine, segnarono la rinascita dell’economia britannica, aprendo la strada a un modello economico più competitivo e orientato al mercato.
Sul piano internazionale, Thatcher fu un’alleata imprescindibile degli Stati Uniti di Ronald Reagan. Insieme, incarnarono il fronte occidentale del conservatorismo liberista contro il blocco sovietico. Fu una sostenitrice della Guerra Fredda fino alla vittoria e mantenne un atteggiamento fermo nei confronti dell’URSS, pur sviluppando in seguito un dialogo costruttivo con Mikhail Gorbaciov, che definì “un uomo con cui si può fare affari”. Il 1982 delle Falkland segnò un punto di non ritorno: dimostrare che la deterrenza vale solo se sorretta dalla volontà di agire e con la riconquista delle isole occupate dall’Argentina rafforzò fortemente il suo prestigio interno.
C’è un passaggio tratto dall’intervista a Woman’s Own del 1987 che sintetizza il suo pensiero sociale e che viene regolarmente travisato: “non esiste la società”, intesa come entità astratta a cui delegare tutto, ma esistono persone, famiglie, comunità reali. L’idea — che la stessa Thatcher spiegò e contestualizzò — non è un inno all’egoismo, ma un richiamo alla sussidiarietà e alla responsabilità: ciò che individui, famiglie, comunità e corpi intermedi possono fare, lo facciano; lo Stato governi, non si sostituisca. È una bussola che oggi parla a un’Europa appesantita da iper-regolazione e sostituzione pubblica dell’iniziativa privata.
Proprio il suo governo segnò anche un rapporto complesso, ma molto pragmatico, con l’Europa, opponendosi ad ogni deriva centralista. Pur sostenendo inizialmente il mercato unico, si oppose con forza a ogni inclinazione federalista, ponendo le basi di quel sospetto verso Bruxelles che avrebbe alimentato il dibattito britannico fino alla Brexit. Nel celebre discorso di Bruges (1988), Thatcher disse una verità semplice e ancora attuale: l’integrazione ha senso se potenzia, non svuota, la sovranità democratica delle nazioni, se fa poche cose e le fa bene. È la radice di un “eurorealismo” conservatore che contesta l’idea di un super-Stato burocratico e rivendica una cooperazione tra Stati liberi e responsabili.
Se spostiamo lo sguardo sull’Italia di oggi, la connessione non è un gioco di specchi, ma una convergenza concreta di priorità. La leadership di Giorgia Meloni, prima donna a Palazzo Chigi, ha rimesso l’agenda su tre capisaldi: responsabilità, libertà, sovranità. Tradotto? Meno tasse sul lavoro, regole più semplici, fiducia a chi produce e assume. Un completo cambio di paradigma rispetto alle promesse di facile spesa cui era assuefatto il sistema italiano; oggi si premia il merito e rimette al centro impresa e ceto medio. È la stessa idea di governo sobrio e concreto che permise al Regno Unito di uscire dall’immobilismo: meno burocrazia che soffoca, più aria a chi lavora.
Accanto all’economia, c’è l’impianto valoriale: famiglia e natalità non come bandierine ideologiche, ma come infrastruttura del Paese; confini difesi con serietà e umanità, come dimostra l’accordo con l’Albania per spezzare il ricatto dei trafficanti e riportare ordine dove da troppo tempo regnava l’illegalità. Sul piano esterno, il Piano Mattei guarda all’Africa con la bussola dell’interesse nazionale: partenariati reali su energia, formazione, infrastrutture, non assistenzialismo. E la presidenza italiana del G7 in Puglia ha mostrato un’Italia che in soli pochi anni è tornata ad essere affidabile, atlantica e protagonista: fermo sostegno all’Ucraina, attenzione al Mediterraneo allargato, dialogo con il Sud globale.
È lo stesso stile che rese forte la leadership di Thatcher: dire cosa si vuole, prendersi la responsabilità delle scelte, portare a casa risultati verificabili.
Naturalmente, Thatcher e Meloni non sono sovrapponibili — e non è questo il nostro intento — : tempi, geografie e sistemi istituzionali sono completamente diversi. La Gran Bretagna degli anni Ottanta veniva da decenni di declino industriale; l’Italia del 2025 affronta una transizione tecnologica ed energetica che obbliga a conciliare competitività e sostenibilità, entro regole europee che spesso eccedono la misura, all’interno di un panorama geopolitico di grande complessità. Ma ci sono tratti che uniscono le due leadership. Il primo è l’idea che le riforme non servano a fare scena o propaganda, bensì a produrre effetti misurabili nella vita delle persone: più lavoro, più concorrenza, meno rendite. Il secondo è la consapevolezza che il ruolo internazionale non si proclama, si costruisce: difendendo i propri confini e interessi e, allo stesso tempo, investendo in alleanze e partenariati credibili. Il terzo è una visione dell’Europa come cooperazione fra nazioni libere e responsabili — un’impostazione che i Conservatori e Riformisti Europei (ECR) hanno tradotto nel lessico dell’“Eurorealismo” o “Common sense”, ponendo al centro identità, democrazia, sussidiarietà e focalizzazione dell’UE sui suoi compiti essenziali.
Sotto questa luce, il centenario non è un pretesto nostalgico, ma una testimonianza ed una sveglia che suona per tutti. Insomma, credo che alla fine la domanda non sia — e non debba essere — se la “Lady di ferro” piaccia o meno; la domanda è se la bussola che aveva contribuito a costruire allora, oggi continui a funzionare in un continente che sembra aver smarrito il gusto delle scelte.