Dopo 12 giorni dalla morte di Masha Amini, le donne iraniane restano eroicamente in rivolta contro il regime dittatoriale islamico di Teheran. Le forze dell’ordine stanno usando il pugno durissimo con i manifestanti, si contano decine di morti e un migliaio di arrestati tra attiviste, avvocati e giornalisti, in una intollerabile escalation di violenza e repressione. Pochi giorni fa, negli scontri con le forze dell’ordine, è stata uccisa con sei colpi di pistola Hadis Najafi, una ventenne che era diventata il simbolo delle proteste, colpita a freddo, al volto ed al petto.
Le manifestazioni in Iran sono figlie di un malessere profondo, che viene da lontano. Quarant’anni di dittatura islamica hanno determinato ferite laceranti in un popolo che, dalla salita al potere degli ayatollah, ha visto progressivamente erodere le proprie libertà individuali. L’Iran è stato teatro di più moti di rivolta che hanno creato negli ultimi anni diverse tensioni, a volte per malessere sociale, a volte per rivendicazioni economiche, ma mai si era verificata una sollevazione popolare così diffusa in ogni ambito della società. Oggi manifestano insieme classe media, operai, studenti, uniti in un coro unanime di dissenso, spronati da donne valorose che hanno deciso di bruciare l’hijab, simbolo di oppressione. Il regime avverte la pericolosità di questi moti rivoluzionari e sta utilizzando metodi violentemente repressivi, arrivando a disattivare anche i social ed internet. La comunità internazionale ha iniziato a far sentire la propria voce, tanto che Teheran ha redarguito il Regno Unito e convocato l’ambasciatore norvegese, denunciando “indebite ingerenze” nella sovranità del Paese, da parte di un occidente che mistificherebbe la realtà. Ma Masha è morta, Hadis anche, e la rivoluzione non accenna a placarsi.
Secondo l’associazione per i diritti umani degli iraniani, con sede ad Oslo, sono più di 70 i morti dall’inizio delle proteste e sarebbero state incarcerate 1200 persone, tra attivisti e giornalisti. Anche l’UE ha chiesto di fare chiarezza sulle vicende condannando “l’esteso e sproporzionato uso della violenza nei confronti di contestatori non violenti”.
Di fronte a tutto questo, lascia sgomenti il silenzio assordante delle femministe di casa nostra, che forse per “prudenza” nei confronti dell’Islam, hanno ben preferito tacere su questo scempio. Occorre interrogarsi seriamente sull’ipocrisia del pensiero delle donne di sinistra, che fanno barricate per utilizzare una shwa, o per declinare al femminile cariche e titoli, ma che si eclissano se la battaglia diventa scomoda. Sì perché la battaglia che stanno combattendo le donne iraniane non viene fatta nei circoli radical chic o all’ombra degli ombrelloni di Capalbio, ma viene portata avanti nelle strade, di fronte alle pistole del regime oscurantista islamista, che le vuole schiave e sottomesse. Là dove si rischia la vita, là dove la vita si perde e dove ci si tagliano i capelli in segno di lutto, non ci sono spazi per le idiozie di facciata, né tempo per affermare strampalate costruzioni grammaticali.
Quando poi i drammi accadono fuori dai nostri confini, prima di sposare una battaglia, le nostre femministe ci pensano due volte, prima valutano quanto conviene schierarsi e poi, forse, imbracciano qualche striscione improvvisato a favore di telecamera, per rintanarsi nei loro comodi salotti non appena l’operatore spegne il microfono.
Dire che la sharia è prevaricazione non conviene, affermare che il velo imposto è un simbolo di oppressione è scomodo, perché mina dalle fondamenta il miope dogma buonista della sinistra. Allora si cercano altri “mostri”, ben più facili da combattere, come la grammatica italiana, la famiglia tradizionale, la destra nostrana che si porterebbe addosso l’onta inemendabile del fascismo. Questa destra però, oggi, è l’unica che si è fatta sentire. Il Presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni ha espresso una ferma condanna nei confronti del regime islamico iraniano, solidarizzando con le donne scese in piazza. Lo ha fatto per Masha, che in realtà non si chiamava Masha, ma Jina, nome curdo però proibito dalle autorità che impongono nomi islamici, e lo ha fatto per tutte le donne che oggi soffrono e rischiano la vita nei regimi tirannici e oppressivi che sentenziano a suon di fatwe.
Jina in curdo, quel nome che gli ayatollah hanno voluto cancellare, vuol dire “donna”, ed oggi lei è fonte di coraggio e leva di rivalsa per tutte le donne del mondo tenute sotto il giogo dell’Islam radicale, che le vuole schiave e prive di ogni diritto, che copre loro il capo e il volto, che le mutila da bambine, che impedisce loro di studiare e gli affida un solo compito: procreare e servire l’uomo. Jina, vuol dire donna, ma da oggi, vuol dire anche libertà.