Parafrasando John Fitzgerald Kennedy possiamo dire che «oggi siamo tutti Alain Elkann» oppure, volendo far nostre le celebri parole di Armando Feroci, affermiamo con nettezza che «arriva un momento che dici abbasta». Quel che è accaduto dimostra inequivocabilmente che la misura è ormai colma, come del resto si evince dal resoconto che lo stesso Elkann ha vergato per La Repubblica, una testimonianza a tratti struggente intitolata “Sul treno per Foggia con i giovani lanzichenecchi”.
L’onta subita dal malcapitato Alain prende le mosse da una carrozza di prima classe del treno Italo che si è visto costretto a condividere con «un ragazzo che avrà avuto 16 o 17 anni. T-shirt bianca con scritta colorata, pantaloncini corti neri, scarpe da ginnastica di marca Nike, capelli corti, uno zainetto verde» e addirittura «l’iPhone con cuffia per ascoltare musica».
Già questo sarebbe sufficiente per domandarci se in questa povera Italia sottomessa al giogo delle destre lo Stato esista ancora oppure no, ma non è finita, perché, «nelle file dietro e in quelle davanti, sedevano altri ragazzi della stessa età, vestiti più o meno allo stesso modo», racconta Elkann, rimasto al suo posto con sprezzo del pericolo nonostante alcuni di loro avessero in testa «il classico cappello di tela con visiera da giocatore di baseball di colori diversi prevalentemente neri, e avevano tutti o le braccia o le gambe o il collo con tatuaggi piuttosto grandi» mentre lui, con immarcescibile lealtà a se stesso e noncurante dei perigli del cambiamento climatico, indossava «un vestito molto stazzonato di lino blu e una camicia leggera» e aveva «una cartella di cuoio marrone». Il tutto, pensate, senza nemmeno aver avuto il tempo per consultarsi con l’armocromista. Che riflessi, chapeau.
L’inesorabile scorrere del suo preziosissimo tempo continuava ad essere compromesso dai ragazzi che «parlavano ad alta voce come se fossero i padroni del vagone» di calcio e ragazze, nonostante il prode Elkann avesse estratto dalla sua cartella in cuoio «Financial Times del weekend e New York Times»: indifferenza che non è stata minimamente scalfita nemmeno da «Robinson, il supplemento culturale di Repubblica», dal secondo volume de La Recherche di Proust e da un quaderno «su cui scrivo il diario con la mia penna stilografica».
Dramma nel dramma, «non sapevo», racconta un Elkann toccato nel vivo, «che per andare da Roma a Foggia bisognasse passare da Caserta e poi da Benevento». Al disorientamento dovuto alla presenza di quei giovani fuorviati dalla loro manifesta aridità morale, si aggiunge lo smarrimento per quel passaggio forzato da luoghi dannatamente provinciali e per questo lontani anni luce dalla sua dimensione cosmopolita, una punizione certamente eccessiva e immeritata, che lui incassa con la consueta signorilità ammettendo che «pensavo di aver sbagliato treno, ma invece è così».
Che dire, di questa triste fotografia della nostra società che continua a essere popolata da giovani lanzichenecchi intenti a «beccare le ragazze in spiaggia e poi la sera portarle fuori e provarci», mentre intorno a noi ogni essere vive cambiando forma all’insegna della fluidità, concetto fatto suo da Don Peppino di Cerignola che, a tu per tu con Elkann una volta scesi dal treno, lo fissò con sguardo austero. «Questo sacerdote deve avermi riconosciuto», pensò Alain rinfrancato trattenendosi, però, da scontati sorrisi di circostanza. Don Peppino fece un ulteriore passo verso di lui e pronunciò poche parole, ma pesanti come macigni: «Pasquale Zagaria, u figl di Riccard!».