Sul piatto ballano mille miliardi di dollari, sì avete letto bene, proprio mille miliardi, che al confronto il Piano Marshall varato dagli Stati Uniti alla fine della guerra, sembra una mancetta. Il progetto è quello di investire questa somma colossale in investimenti infrastrutturali in tutto il mondo.
Si chiama BRI – Belt and Road Iniziative, è un programma cinese e l’ha voluto il presidente Xi Jinping ufficialmente nel 2013, ma parecchi progetti che ne fanno parte all’epoca erano già in campo. Il marchio pare vada bene un po’ per tutto, dai ponti alle sfilate di moda, dal sensibilizzare la gente sulla necessità dell’igiene dentale agli sport come la maratona. Perciò, capire davvero il fine ultimo del governo cinese dietro questa operazione, è parecchio complicato, anche dove appare limpido. Non a caso, il Centro di studi strategici e internazionali, un osservatorio Usa, al settembre del 2018 accorpava nel BRI ben 173 progetti in 45 paesi diversi, tutti già finanziati, molto spesso diversissimi tra loro, alcuni dei quali con finalità addirittura incomprensibili.
Torniamo così alla Nuova via della Seta, una sorta di mega corsia preferenziale per gli scambi di mezzo mondo – anzi di più – con la Cina? Beh, a giudicare dai sei grandi corridoi internazionali su cui dovrebbe reggersi, sembrerebbe di sì, e prevede l’apertura di due corridoi infrastrutturali fra Estremo Oriente e Europa sulla falsariga delle antiche Vie della Seta: uno terrestre (Silk Road Economic Belt) e uno marittimo (Maritime Silk Road). Le aree interessate sono la Cina, l’Asia centrale, l’Asia settentrionale, l’Asia occidentale e i paesi e le regioni lungo l’Oceano Indiano e il Mediterraneo. E vediamoli nel dettaglio questi sei corridoi internazionali. Partiamo da quello con il Pakistan (la sigla ufficiale è Cpec), poi c’è quello che attraverserà Bangladesh, India e Myanmar (Bcimec). Il terzo prevede la partecipazione di Iran, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turchia, Turkmenistan e Uzbekistan (Ccwaec). Il progetto che coinvolge Cambogia, Laos, Malesia, Thailandia, Myanmar e Vietnam è il Cicpec. Il quinto asse è con Russia e Mongolia (Cmrec), mentre la sesta colonna è quella che riguarda l’Europa (Nelb).
Nell’ambito della BRI gli investimenti cinesi in Eurasia hanno già superato quota 50 miliardi e hanno contribuito a creare 56 zone di sviluppo economico in 20 Stati, di cui 14 nel Sud-Est Asiatico. Complessivamente, nel 2016 le aziende cinesi si sono aggiudicate 126 miliardi di contratti in 61 Paesi (+36% su base annua). Con la Silk Road, le merci cinesi raggiungeranno il Mediterraneo attraverso Suez, estendendosi fino alle coste dell’Africa Orientale e al Maghreb, e il resto dell’Asia tramite il Mar Cinese meridionale. Da questo punto di vista, i grandi porti mediterranei dell’Italia, risultano per la Cina estremamente appetibili. Genova, Venezia e Trieste, infatti, sono sicuramente un punto di arrivo molto diretto per le merci rivolte al centro Europa rispetto per esempio al porto del Pireo. Inoltre, l’Italia è interessata direttamente al progetto perché con la Cina ha già un interscambio di oltre 27 miliardi di euro risultando così uno dei nostri maggiori partner in termini di import-export marittimo. La Cina sta inoltre considerando di aprire proprio in Italia, a Vado Ligure, dove le esportazioni sono cresciute l’anno scorso del 25%, un centro logistico europeo per lo smistamento dei prodotti in transito. Nel frattempo è stato siglato un progetto di alleanza tra i cinque maggiori porti del Nord Adriatico, cofinanziato dal Governo italiano e dal Silk Road Fund. Il “Progetto dei cinque porti” interesserà i porti di Venezia, Trieste e Ravenna insieme a quelli di Capodistria in Slovenia e di Fiume in Croazia.
Naturalmente, occorrerà potenziare anche gli snodi stradali e ferroviari che collegano questi porti . A questo punto, molti osservatori fanno notare quanto sia importante per l’Italia assumere un atteggiamento cauto, per evitare in futuro di trovarsi esposti finanziariamente nei confronti della Cina e di dover cedere le installazioni per pagare i propri debiti, come per esempio è accaduto in Grecia.