Missili iraniani contro basi Usa: scoppia la rappresaglia nel Golfo. È l’inizio della guerra?

La vendetta promessa da Teheran è arrivata con il rombo dei motori e la scia dei missili. Sei vettori balistici iraniani si sono alzati in volo nella giornata del 23 giugno, diretti verso le basi statunitensi in Qatar. Uno, forse due, hanno preso la via dell’Iraq, mentre esplosioni sono state udite anche nei pressi della base aerea Al Salem in Kuwait. A darne notizia sono stati media regionali e corrispondenti sul campo, in una serata che segna un salto di qualità nell’escalation tra Stati Uniti e Iran. Nessun proxy, nessuna delega: questa volta l’attacco porta la firma diretta dei Pasdaran.

Ad annunciare l’inizio delle ostilità è stata la stessa tv di Stato iraniana, che ha trasmesso in diretta le prime immagini della cosiddetta operazione “Glad Tidings of Victory” – lieti presagi di vittoria – contro la base americana di Al-Udeid, hub nevralgico della proiezione militare statunitense nel Golfo. A distanza di meno di 48 ore dai raid americani su tre strutture nucleari in Iran, la Repubblica Islamica ha risposto colpo su colpo, infrangendo il velo dell’ambiguità che aveva spesso caratterizzato i suoi atti di ritorsione.

Un attacco diretto senza precedenti

A rendere l’evento dirompente non è solo la portata degli attacchi, ma la loro natura: per la prima volta dall’operazione “Soleimani” del gennaio 2020 – quando l’Iran colpì con precisione millimetrica le basi Usa in Iraq dopo l’eliminazione del generale – Teheran sceglie la via dell’attacco diretto. Nessuna intermediazione di Hezbollah, nessuna milizia sciita irachena. L’Iran espone se stesso, come potenza statuale, in un confronto armato con Washington.

Secondo le fonti israeliane raccolte da Axios, almeno sei missili avrebbero raggiunto l’area della base di Al-Udeid, e uno ulteriore sarebbe stato lanciato in direzione dell’Iraq. La chiusura immediata dello spazio aereo del Qatar, le sirene antiaeree a Kuwait City, e i boati avvertiti fino a Doha sono tutti indizi di una dinamica in corso che va oltre la rappresaglia: siamo dentro una fase di scontro aperto, per quanto ancora limitato.

Teheran alza la posta. Washington risponderà?

Il quadro strategico si complica. Da una parte, la nuova amministrazione Trump ha adottato sin dall’insediamento una postura aggressiva verso Teheran, dichiarando “chiusa l’era dell’ambiguità strategica” in Medio Oriente. L’attacco del 22 giugno contro tre siti nucleari iraniani – presentato come misura preventiva – ha sancito il ritorno di una logica di deterrenza attiva. Ma ora la risposta iraniana costringe Washington a un bivio: contenere l’escalation oppure rilanciare?

Il Pentagono ha già fatto sapere di considerare “credibile e attuale” la minaccia iraniana verso le basi statunitensi. Secondo il Wall Street Journal, missili a corto raggio sarebbero stati posizionati da giorni in postazioni strategiche dell’Iran occidentale, pronti a colpire. Ma è la dimensione politica a determinare le prossime mosse. Trump può permettersi una nuova guerra nel Golfo? E Teheran può sostenere l’impatto di una controffensiva totale?

Il Golfo come nuova scacchiera globale

La scelta del Qatar come epicentro dello scontro non è casuale. La base di Al-Udeid è sede del comando centrale delle operazioni Usa nel Golfo e punto d’appoggio essenziale per la rete di sorveglianza e intervento in Siria, Iraq, Yemen e oltre. Colpirla significa non solo infliggere un danno tecnico, ma mandare un messaggio al cuore del dispositivo americano.

Ma il messaggio è anche politico: l’Iran mostra di saper colpire non solo Israele, ma gli Stati Uniti, ovunque si trovino. E lo fa in un momento in cui l’equilibrio regionale è già stressato dai negoziati in stallo sul nucleare, dalla fragilità del governo libanese, dal riarmo degli Houthi in Yemen e dalle tensioni tra Arabia Saudita e Israele.

Il rischio di una saldatura tra fronti – Levante e Golfo, Siria e Yemen, Iran e Gaza – è concreto. E con esso il ritorno di uno scenario di guerra regionale a geometria variabile, dove le superpotenze non possono più limitarsi a esercitare influenza, ma devono scegliere se combattere.

L’Europa guarda, l’Italia ascolta

Finora, l’Unione Europea ha reagito con preoccupazione, ma senza una posizione univoca. L’Alto Rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, ha parlato di “necessità di de-escalation”, ma la Germania ha già chiesto un vertice straordinario della NATO, mentre la Francia teme ripercussioni sulla sicurezza energetica.

L’Italia, nel pieno del rilancio del Piano Mattei per l’Africa, osserva con apprensione l’onda lunga di questa crisi. Roma ha un interesse diretto alla stabilità del Mediterraneo allargato, e i suoi asset strategici in Libia e Tunisia sono potenzialmente vulnerabili in caso di escalation. Le comunicazioni di Giorgia Meloni in Parlamento, attese il 25 giugno, potrebbero offrire una prima cornice di analisi politica anche su questo fronte. Ma il tempo delle analisi rischia di essere troppo lento, se i missili continueranno a volare.

Il ritorno della guerra senza maschere

L’attacco iraniano del 23 giugno segna una svolta. Non solo perché rompe la logica della guerra per procura, ma perché costringe le potenze a esporsi, a scegliere, a combattere. Il “teatro delle ombre” che ha dominato il Medio Oriente negli ultimi anni – droni, cyber-attacchi, milizie irregolari – lascia spazio al fragore dei missili. È il ritorno della guerra interstatale, senza maschere. E stavolta il palcoscenico è il Golfo Persico.

Resta aggiornato

Invalid email address
Promettiamo di non inviarvi spam. È possibile annullare l'iscrizione in qualsiasi momento.
Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi per La Voce del Patriota.

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Leggi anche

Articoli correlati