Dopo il baccano mediatico e gli ordini perentori impartiti agli Stati del mondo di far scattare subito le manette ai polsi del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa dello Stato ebraico Yoav Gallant, destinatari di un mandato d’arresto della Corte penale internazionale, appena questi avessero varcato i confini di Israele, adesso si inizia a dubitare della competenza giurisdizionale della CPI sulla possibilità di emettere sentenze a carico dei rappresentanti delle Istituzioni israeliane.
È un ramo della stessa Corte dell’Aja a fare vacillare le certezze iniziali, cioè, la Corte d’Appello della CPI che ha deciso di rinviare la questione delle richieste di arresto spiccate contro Netanyahu e Gallant ai Giudici di primo grado, i quali dovranno riesaminare i mandati di cattura internazionali e stabilire se L’Aja abbia giurisdizione o meno sul caso. Israele non compare fra i firmatari dello Statuto di Roma che è la base storica e legale dell’attività della Corte. La Corte penale internazionale, su richiesta del procuratore generale Karim Khan, aveva emesso i due mandati di arresto il 21 novembre scorso perché, a suo dire, il governo israeliano di Benjamin Netanyahu si sarebbe macchiato di crimini di guerra nel conflitto all’interno della Striscia di Gaza dopo gli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre del 2023.
Le motivazioni della CPI sono state le seguenti: crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi dall’8 ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024, con un attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile di Gaza. Analoghi provvedimenti erano stati presi per i dirigenti di Hamas, ora passati quasi tutti a miglior vita. I rilievi della Corte d’Appello mettono in luce ciò che in realtà era già emerso sin da subito, ovvero, che i mandati d’arresto, voluti dal procuratore Khan, notoriamente ostile allo Stato ebraico, sono la conseguenza di una sentenza scritta con il pregiudizio ideologico, affrettata e pasticciata al punto tale di non riuscire nemmeno ad accorgersi della non adesione israeliana allo Statuto di Roma e quindi, della probabile incapacità della Corte penale internazionale di agire su Gerusalemme.
Si è voluto forzare la mano per minare la credibilità globale di Israele in maniera strumentale e mettere lo Stato ebraico sullo stesso piano dei terroristi di Hamas, ma, a quanto pare, i persecutori di Netanyahu sono riusciti solo a rimediare una figuraccia e a gettare la CPI nel girone degli organismi internazionali un tempo nobili e diventati però negli anni dei carrozzoni privati di autorevolezza e credibilità. La Corte dell’Aja insegue l’ONU in un percorso autodistruttivo e chi vuole invitare Netanyahu nel proprio Paese, come ha già fatto lodevolmente il premier ungherese Viktor Orban, lo faccia senza timidezze. Ciò valeva prima e vale ancora di più oggi.