«Non vedo il salvataggio in mare come un’azione umanitaria, ma come parte di una lotta antifascista». Pia Klemp, la “capitana” della nave Ong finanziata e decorata dallo street artist “fanstasma” Banksy, ha il pregio della chiarezza: la missione sua e della ciurma di umanitaristi in giro per il Mediterraneo ha a che vedere solo incidentalmente con il destino dei candidati profughi (la cui percentuale stramaggioritaria, ormai è assodato, non scappa da nessuna guerra).
L’obiettivo vero dei “tassisti” della tratta è connesso con la declinazione più che estensiva del termine antifascismo: ossia la contrapposizione, ormai, a qualsiasi “ostacolo” – normativo, giuridico, sociale – si frapponga con il desiderio di questa generazione di sradicati piccolo-borghesi di impiantare in Europa una società intimamente libertaria, slegata da ogni vincolo storico e culturale.
Rispetto a chi l’ha preceduta in questo reality delle Ong – Carola Rackete –, la Klemp non si nasconde dietro a un astratto dovere morale con cui un certo Occidente devitalizzato pensa di dover espiare il suo “peccato originale” nei confronti del Terzo mondo. No, la nuova starlette dei “no border” chiarisce senza mezzi termini dove si innesta l’immigrazionismo. Nella volontà di costituire una nuova “classe”? Di certo questo è un obiettivo di lungo raggio: e le sinistre in carenza di popolo non vedono l’ora di poter monetizzare elettoralmente questa transumanza gentilmente offerta dalle Ong.
Nell’immediato, invece, azioni come queste della nave “Louise Michel” si calano perfettamente nell’attacco concentrico alla sovranità politica degli Stati, e dell’Italia in particolare. E l’obiettivo, dal loro punto di vista, è pienamente raggiunto: creare scompiglio, dividere e lacerare l’opinione pubblica, donare un obiettivo e una dimensione ai progressisti in crisi di interlocuzione “in patria”. Di fatto, come è evidente da sempre da queste parti, l’immigrazione diventa un asset formidabile per una sinistra senza nazione. Mentre i diritti umanitari sono il furbo espediente con cui si tenta di far filtrare una legislazione sovranazionale (vedi Global compact), utilissimo cavallo di Troia per falciare il diritto dei popoli di autodeterminare la vita dentro i propri confini.
Si comprende perfettamente, dunque, il motivo per cui la risposta a un attacco politico travestito da emergenza umanitaria non può che essere politica in senso stretto. Va bene la sicurezza, come principio, e il diritto-dovere di uno Stato di difendere i propri confini. Ma è chiaro che il piano del dibattito è diventato “totale” e come tale richiede dagli identitari una risposta complessa: pronta a stanare i reali obiettivi del network globalista ma soprattutto a contrapporre una ricetta sociale ed economica all’altezza di rispedire al mittente ciò che il mainstream chiama «inevitabile».
In che senso? Per gli immigrazionisti il problema non è dare diritti agli immigrati in questa società ma costruire grazie a questi (e nonostante la loro volontà) una società “migliore”: un’utopia del terzo millennio, millenarista e pericolosa almeno quanto quelle del secolo scorso. E indovinate qual è l’ostacolo per questa visione? Esatto, quel luogo che milioni di cittadini si “ostinano” a considerare patria sulla quale poter rivendicare dei diritti di trasmissione.
Liberarsi da questo vincolo, ovviamente, è solo «una parte della lotta antifascista», per dirla con la capitana. L’altra riguarda la distruzione di quel “feticcio” chiamato famiglia, l’altra ancora quel “luogocomune” chiamato genere sessuale. E che dire di quella “superstizione” chiamata identità? Quella sulla quale interi popoli hanno costruito un destino: che dalle nostre parti si chiama storia…
CHE ARTICOLO DEL CAZZO