Parole che uccidono. La linea rossa è stata superata

Yaron e Sarah stavano per sposarsi. Lui israeliano con doppia cittadinanza tedesca, lei americana. Entrambi credevano nel dialogo, nella diplomazia, nella pace. Sono morti a Washington, assassinati da un trentenne che urlava “Free Palestine”. Non erano generali, non erano politici, non erano “coloni armati” né “complici del genocidio”, come certa propaganda ama ripetere. Erano solo israeliani. E tanto è bastato.

L’attentato di Washington non è un incidente isolato. È un sintomo. È l’effetto violento e sanguinoso di un clima ideologico che da mesi inquina le piazze, i social, le università, perfino le aule parlamentari. È figlio di un antisemitismo che si è mascherato da militanza umanitaria, ma che oggi si mostra per quello che è: odio cieco, disumanizzazione, giustificazione dell’omicidio.

In Italia qualcuno si ostina a ripetere che criticare Israele non equivale a essere antisemiti. È vero. Ma dipende dalle parole, dai toni, dalle intenzioni. Quando si accusa uno Stato democratico di “genocidio sistematico”, quando si chiede agli ebrei italiani di “dissociarsi” dal governo israeliano per non esserne complici, quando si usano slogan come “morte ai sionisti” o “Israele è un’entità criminale”, allora non si sta più facendo critica politica. Si sta armando l’odio.

E l’odio, come ci ricorda il tragico attentato di Washington, uccide. Uccide due giovani innamorati. Uccide la possibilità stessa di distinguere tra giusto e sbagliato, tra dolore e propaganda, tra diritto alla difesa e voglia di sterminio.

A Trieste, un gruppo di “amici di Israele” ha lanciato un appello per fermare il “massacro a Gaza”. Un documento pieno di sfumature, firmato anche da membri della comunità ebraica locale. Condanna Hamas, critica Netanyahu, chiede un cessate il fuoco. Ma già tra i firmatari c’è chi invoca parole più dure: “pulizia etnica”, “genocidio”, “crimini contro l’umanità”.

Parole che non salvano vite. Parole che disumanizzano. Parole che, se usate da politici, intellettuali e giornalisti, diventano benzina sul fuoco. Come ha detto lo storico israeliano Ofir Haivry, “non si è più di fronte solo all’antisemitismo: si è passati all’odio contro gli israeliani, chiunque essi siano”.

Giovanni Donzelli ha parlato chiaro: chi alimenta l’odio antiebraico, anche inconsapevolmente, si assume una responsabilità storica. Cirielli ha invitato i politici a pesare le parole. Mieli ha chiesto conto al ministro Piantedosi delle misure contro l’antisemitismo crescente. Malan ha ricordato gli insulti di chi scrive “morte ai diplomatici israeliani”, mentre Tajani, Crosetto, Casellati, Meloni e lo stesso Vance negli Stati Uniti hanno richiamato l’urgenza di proteggere le comunità ebraiche. Non è più tempo di sfumature.

Nel centro di Milano è comparso un cartello: “Israeliani sionisti non sono benvenuti qua”. È stato tolto. Ma è stato scritto. Fotografato. Applaudito da qualcuno. È questa l’Italia che vogliamo? Un’Italia dove l’ebreo torna a dover nascondere la kippah? Dove ogni ambasciata israeliana è un potenziale obiettivo? Dove ogni parola può diventare un proiettile?

Criticare il governo israeliano è legittimo. Farlo con onestà, distinguendo i fatti dalle narrazioni, è doveroso. Ma non c’è più spazio per le ambiguità. Chi invoca il cessate il fuoco deve farlo senza alimentare il mito del “genocidio israeliano”. Chi manifesta per la pace deve respingere in piazza ogni slogan antisemita. Chi scrive o parla in pubblico deve sapere che le parole, oggi più che mai, hanno un peso. E possono uccidere.

L’Europa si è già trovata di fronte a questo bivio. La Storia ci ha mostrato dove porta il cedimento morale, l’indifferenza, il silenzio. Oggi siamo a un nuovo bivio. Serve lucidità. Serve fermezza. Serve, soprattutto, il coraggio di dire che la linea rossa è stata superata.

Basta con l’antisemitismo. Prima che sia troppo tardi.

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Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi
Leo Valerio Paggi per La Voce del Patriota.

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