C’è un punto che persino i più scettici non possono più ignorare: la Russia non è riuscita a raggiungere il suo obiettivo principale, la distruzione della nazione ucraina. È questo il nucleo dell’analisi che Yuval Noah Harari, storico e saggista israeliano, ha affidato alle colonne del Financial Times il 27 settembre 2025. Ed è da qui che occorre partire per comprendere cosa significa davvero parlare di “vittoria” ucraina, al di là della propaganda di Mosca e delle esitazioni occidentali.
Un inizio che sembrava già scritto, “La Russia non può perdere” e invece si
Quando il conflitto entrò nella fase più acuta, il 24 febbraio 2022, il copione sembrava già scritto. La Russia puntava a conquistare Kiev in pochi giorni, a costringere Volodymyr Zelenskyy alla fuga e a insediare un governo fantoccio. Al punto che gli stessi alleati occidentali offrirono al presidente ucraino un “passaggio sicuro” per costituire un esecutivo in esilio. La risposta di Zelenskyy — “Ho bisogno di munizioni, non di un passaggio” — è diventata la sintesi della resistenza di un intero popolo.
Quella scelta cambiò il corso della guerra: l’esercito ucraino, nettamente inferiore per mezzi e numeri, respinse l’assalto russo a Kiev e, nell’estate del 2022, contrattaccò liberando Kharkiv e Kherson. Da allora, i progressi di Mosca si sono rivelati illusori: nel 2025, con centinaia di migliaia di soldati persi, la Russia controlla persino meno territorio rispetto all’agosto 2022.
Ed è qui che cadono nel ridicolo i putiniani nostrani, sempre pronti a ripetere come un disco rotto che “la Russia non può perdere”. Harari dimostra il contrario: Mosca non ha preso Kiev, non ha conquistato Kharkiv, non ha domato Kherson, e dopo tre anni di carneficina si ritrova con lo 0,6 per cento in più di territorio e centinaia di migliaia di cadaveri. Chiamarla “vittoria” è come esultare perché la squadra del cuore ha segnato un autogol. Ma loro continuano a sventolare bandiere di cartapesta, convinti che Putin sia uno zar invincibile mentre in realtà arranca in una trincea che ricorda più Caporetto che San Pietroburgo.
Come scrive Harari, «la guerra non viene vinta dalla parte che conquista più territorio, distrugge più città o uccide più persone. La guerra viene vinta dalla parte che raggiunge i propri obiettivi politici. E in Ucraina è già chiaro che Putin non è riuscito a raggiungere il suo principale obiettivo bellico: la distruzione della nazione ucraina».
E ancora: «Nessuno sa quante altre persone moriranno a causa delle illusioni e delle ambizioni di Putin, ma una cosa che è stata resa abbondantemente chiara al mondo intero è che l’Ucraina è una nazione molto reale e che milioni di ucraini sono disposti a lottare con le unghie e con i denti per rimanere indipendenti dalla Russia».
Terra, mare e cielo: tre fallimenti strategici
Harari sottolinea un dato che non può essere ignorato: per ottenere lo 0,6 per cento del territorio ucraino, l’esercito russo ha sacrificato tra i duecento e i trecentomila uomini. Una proporzione che evoca le mattanze della Prima guerra mondiale, quando migliaia di soldati venivano sacrificati per pochi chilometri di fango.
«Dalla primavera del 2022, [i russi] non sono riusciti a conquistare alcun obiettivo di grande importanza strategica come le città di Kiev, Kharkiv o Kherson. Nel 2025, con un costo di circa 200.000-300.000 soldati uccisi e feriti, l’esercito russo è riuscito finora a conquistare solo una sottile striscia di zona di frontiera che ammonta a circa lo 0,6% del territorio totale dell’Ucraina»
Sul mare, la vicenda della Moskva ha mostrato al mondo che la presunta invincibilità della flotta russa del Mar Nero era solo un’illusione. Affondata grazie a droni e missili, insieme ad altre unità, ha costretto ciò che restava della flotta a rifugiarsi lontano dal fronte. «Grazie all’uso innovativo di missili e droni, gli ucraini sono riusciti a neutralizzare la superiorità navale della Russia, hanno cambiato la natura stessa della guerra navale e hanno costretto ciò che restava della flotta russa del Mar Nero a cercare rifugio in porti sicuri lontani dal fronte».
In aria, la Russia non è mai riuscita a conquistare il controllo dei cieli. L’attacco ucraino di giugno 2025 contro la flotta di bombardieri strategici russi ha segnato un ulteriore fallimento. Mosca ha reagito colpendo con missili e droni le città ucraine, ma senza alterare gli equilibri militari.
La guerra psicologica e il fronte interno occidentale
«Poiché la Russia non è riuscita a ottenere la superiorità aerea e navale né a sfondare le difese ucraine via terra, la strategia russa cerca di aggirare la posizione ucraina attaccando la volontà degli americani e degli europei», spiega ancora lo storico.
Se Mosca non ha sfondato sul piano militare, resta l’arma della propaganda. L’obiettivo è instillare in Europa e in America l’idea che la vittoria russa sia inevitabile. Ma i numeri raccontano altro: l’esercito ucraino conta oggi circa un milione di soldati, perlopiù veterani, più di Germania, Francia e Polonia messe insieme. È questo l’argine che separa Varsavia, Berlino e Parigi da eventuali nuove offensive russe. Non stupisce allora che, come osserva Harari, persino Donald Trump — che nel febbraio 2025 invitava Zelenskyy a cedere alle richieste di Putin — abbia riconosciuto che “l’Ucraina, con il sostegno dell’Unione Europea, è in grado di combattere e vincere”.
La posta in gioco per l’Occidente
La verità è che la guerra non si misura solo in chilometri di territorio o in città conquistate. Una guerra si vince quando si raggiungono gli obiettivi politici. E sotto questo aspetto, la Russia ha già perso. Putin voleva dimostrare che l’Ucraina non fosse una nazione reale, ma un’invenzione destinata a dissolversi. Dopo tre anni di conflitto su larga scala, il risultato è esattamente opposto: l’Ucraina ha consolidato la propria identità nazionale e ha mostrato al mondo che milioni di cittadini sono pronti a combattere “con le unghie e con i denti” per la propria indipendenza.
Per l’Occidente, la lezione è altrettanto chiara: cedere oggi significherebbe non solo tradire l’Ucraina, ma rinunciare al principale baluardo che difende l’Europa dalla proiezione di potenza russa.
Harari chiude il suo intervento sul Financial Times ricordando che le nazioni non sono fatte di terra o di sangue, ma di storie, immagini, memorie condivise. La memoria dell’invasione russa, delle atrocità subite e dei sacrifici compiuti alimenterà il patriottismo ucraino per generazioni. È questo il senso ultimo della vittoria: un’identità che non si lascia annientare.
Ed è anche il monito per l’Europa. Perché la guerra in Ucraina non è soltanto il test di resistenza di un popolo, ma la prova generale della capacità dell’Occidente di difendere sé stesso.