Enoch Burke è un nome che ai più non dice niente. Ed è un male, perché la sua storia, quella di un insegnante colto, un cristiano praticante, una brava persona finita in carcere per motivazioni – per così dire – controverse, avrebbe dovuto fare il giro del mondo e del web, tutte le testate ne avrebbero dovuto parlare. Invece, la sua storia ha interessato ben poco il giornalismo allineato con le derive woke del mondo progressista. O meglio, che si definisce tale, ma che con il progresso non c’entra proprio nulla. Perché non può essere considerato progresso l’incarcerazione di un insegnante, reo di essersi rifiutato di utilizzare i pronomi femminili nei confronti di un suo studente in fase di transizione di genere.
Non si è piegato
Il nocciolo della questione è proprio questo: un insegnante va in carcere perché si è rifiutato di dare del “loro” a uno studente trans. In ottemperanza, tra l’altro, della sua forte fede cristiana evangelica. Burke, infatti, al momento dell’arresto, che risale a metà del 2022, veniva descritto come una persona molto attiva negli ambienti pro-vita. Cosa che certamente non ha aiutato le sue tesi, quasi come fosse un pericoloso aggravante. Stoicamente, Burke ha scelto di non abbassarsi ai meccanismi imposti dalla cultura woke in Irlanda, ha scelto di seguire il suo credo, quello cristiano, quello della libertà ma non delle derive, quello del rispetto della persona, della sua integrità, della sua dignità. Così, prima la scuola in cui lavorava lo ha sospeso, poi è intervenuta la magistratura, verso la quale ha spiegato le sue ragioni: “È una follia che sarò condotto da questa aula di tribunale a un luogo di incarcerazione, ma non rinuncerò alle mie convinzioni cristiane”. Preferisce seguire il proprio credo che piegarsi al politicamente corretto, preferisce essere “un cristiano nel carcere di Mountjoy” che un “pagano asservito all’ideologia transgender”.
Potenzialità distruttiva
C’è da dire che l’Irlanda – la stessa Irlanda che voleva imporci un’etichettatura sui nostri vini, simile a quella delle sigarette, che ne disincentivasse l’uso (come non leggere anche questa mossa in una chiave politicamente corretta?) – è ormai da tempo genuflessa di fronte al dilagare delle derive woke. Diversi anni fa, infatti, è arrivata la notizia (con poca visibilità qui in Italia) che in molte scuole, dove la deriva woke punta a entrare ed effettivamente dà più velocemente i suoi effetti, si aiutavano i bambini a intraprendere la transizione. Talvolta anche senza il consenso dei genitori. Una notizia che, se confermata, avrebbe dell’incredibile: all’epoca dei fatti, pare in effetti che il governo abbia vacillato sul prendere una posizione contraria in merito. Tutto ciò per comprendere quanto sia impattante oggigiorno il pensiero woke sulle nostre vite, specialmente se conquista il tacito consenso o l’espresso avallo della classe dirigente, che potrebbe farne un punto del proprio programma politico. Basti pensare, ad esempio, al ddl Zan, che per fortuna l’Italia è riuscita a evitare: quanti casi come Burke si sarebbero avuti qui da noi? Quanti cristiani sarebbero stati giudizialmente perseguitati? Quanti sostenitori della famiglia avrebbero dovuto inginocchiarsi ai diktat di un’ideologia che non ci appartiene? Quanta identità, personale e cultura, avremmo perso?
Burke torna libero
La storia di Burke fa riflettere. La riprendiamo oggi perché dopo 400 – quattrocento! – giorni di detenzione nel carcere di Mountjoy, l’insegnante è tornato in libertà, ma con il limite di non poter rientrare nella sua scuola. In questi quattrocento giorni di detenzione, Burke non ha mai rinunciato al suo credo e ha aspettato, con il dovuto rispetto per le istituzioni, la sua scarcerazione con riguardo e riverenza, lontano da clamori mediatici, ma non rinunciando mai ai propri valori. Una forza stoica contro la potenza devastante e distruttiva del politicamente corretto.