Referendum. Malan ad Avvenire: “Non voto perché è una sfida per risolvere problemi nel Pd”

«Personalmente, non mi recherò alle urne e non voterò».

Nell’imminente tornata referendaria, il capogruppo dei senatori di Fratelli d’Italia Lucio Malan ha già valutato da tempo cosa fare. Perché non seguirà l’esempio della premier e leader di Fdi, che andrà al seggio ma non ritirerà le schede dei quesiti?

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni fa bene a fare come ha detto, perché essendo una delle cariche più alte dello Stato, è giusto che faccia così. Ma in generale la nostra posizione è quella di non recarsi a votare, così i presidenti di seggio avranno meno lavoro.

In seno a Fratelli d’Italia, siete fermamente contrari al contenuto dei quesiti, questo si sa. Ma quali criteri avete valutato quando avete concordato la linea?

In verità, non è che abbiamo fatto una riunione specifica, perché ci veniva un po’ in automatico. Non riteniamo che questi quesiti siano il modo giusto per affrontare il tema del lavoro. Tanto più in un momento in cui grazie alle politiche del governo Meloni, abbiamo una serie di cifre record: l’occupazione ai massimi; la disoccupazione ai minimi degli ultimi 18 anni; il lavoro stabile che è aumentato rispetto a quello precario; ed è la prima volta dopo molti anni che il potere d’acquisto dei lavoratori risale, In questo scenario, lo strumento referendario non ci sembra davvero il modo giusto di intervenire. E poi, ormai appare chiaro che la consultazione è una sorta di sfida per risolvere problemi interni al Pd.

Per l’ex premier Paolo Gentiloni, sarà un po’ come una resa dei conti all’interno dell’album di famiglia. Da destra, la vedete alla stessa maniera, mi par di capire…

Diciamo che lo sospettavamo da tempo. Adesso Gentiloni ci dà un’autorevole certificazione che le cose sono così. E credo che gli elettori del Pd abbiano ben ragione di essere un po’ disorientati. I loro eletti, quando la guida del Pd era di Renzi, avevano fatto una bandiera dello Jobs Act. Molti sono ancora parlamentari adesso, E pure gli elettori grosso modo sono quelli, non è che chi vota oggi Pd prima votava per la Lega. Eppure ora il Partito democratico, con la segreteria a guida di Elly Schlein, è diventato il principale sostenitore del referendum per abrogare alcune di quelle norme. Ebbene, siccome noi non siamo iscritti al Pd, non ci interessa prender parte a un congresso interno e dunque non partecipiamo a questa consultazione. Si tratta della scelta per noi migliore, perché non contribuisce a far raggiungere il quorum.

Al netto della stoccata politica agli avversari, davvero non vedete nei 4 quesiti sul lavoro aspetti di sostanza sui problemi reali del Paese?

No, perché guardiamo ai concreti risultati delle politiche di governo realizzate finora, che hanno fatto crescere sia quei dati di cui dicevo, ma anche irrobustito i diritti dei lavoratori.

In quale modo?

Il loro primo diritto è di trovare lavoro. E, visto che i dati Istat certificano che c’è oltre un milione di posti in più, vuol dire che cercare e trovare è più semplice che in passato. Per come la vediamo noi, far crescere le possibilità occupazionali è la più sicura delle armi rispetto all’eventualità di perdere un lavoro o di essere trattati male dove si è. Perché, in quel caso, si hanno maggiori alternative: posso chiedere uno stipendio più alto o condizioni migliori; e se non mi vengono concesse, posso cambiare posto. Se invece se il lavoro scarseggia e conviene tenerselo stretto, le leggi iper garantiste sulla carta sono solo teoria.

Ci sono giuristi convinti che il referendum abrogativo sia uno strumento troppo rozzo su una materia così stratificata. E che tocchi al Parlamento mettervi mano. Come maggioranza, potreste farlo agevolmente…

Noi abbiamo fatto numerosi interventi sul lavoro. Ad esempio, con la norma per cui “più assumi meno paghi”, e le spese per la forza lavoro sono detraibili addirittura al 120%. Oppure abbiamo aumentato di tre mesi il congedo per maternità retribuito all’80%, abbiamo tagliato il cuneo fiscale più di quanto chiedeva perfino la Cgil, stanziato fondi per la formazione e per assumere nuovi ispettori in materia di sicurezza. E potrei continuare…

Veniamo alla vexata quaestio della cittadinanza. Perché resta un tabù per voi dimezzare l’attesa, da 10 a 5 anni, per gli immigrati che avrebbero diritto a chiederla? In Germania o Francia basta un quinquennio…

La sovranità è di ogni Stato che decide come ritiene. Mi limito a far notare come Germania e Francia registrino ogni anno tensioni sociali ed episodi che mostrano come l’integrazione da loro non sia proprio riuscitissima. Per noi, dimezzare i tempi non ha senso: chi ha intenzioni serie alla cittadinanza ci arriva. Dieci anni è un termine congruo e consente di scremare fra chi, dopo qualche anno, torna al suo Paese e chi invece viene in Italia per starci.

Nel 2026 i cittadini potrebbero tornare alle urne per altri referendum, stavolta costituzionali, sul premierato e sulla giustizia. Ma il livello di scontro quotidiano in Parlamento è ormai tale che potrebbero tramutarsi in una sorta di ordalia, spaccando il Paese. O no?

Il confronto, anche acceso, è sano: proporre le proprie idee e sostenerle è il sale della democrazia. Ciò che non vorrei è che, quando si parlerà di premierato e di carriere in magistratura, chi è contrario non si confronti sui contenuti ma si metta a favoleggiare di dittature incombenti, perché sarebbe una falsità e non aiuterebbe i cittadini a vedere gli oggettivi vantaggi delle nostre riforme.

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