Durante la settimana scorsa il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità un corposo progetto di riforma istituzionale, che prevede anzitutto l’elezione popolare del Presidente del Consiglio e anche altre novità decisamente importanti, delle quali parleremo senz’altro nel corso dell’articolo.
L’Italia aspetta un radicale miglioramento della funzione delle proprie Istituzioni dai tempi, pensate un po’, di Bettino Craxi, Giorgio Almirante e Renato Altissimo, gli unici sostenitori della democrazia diretta nella ormai lontana era della Prima Repubblica. La nostra Nazione, resasi conto in maggioranza dei limiti di un sistema parlamentare di fatto mutato poco o nulla dal dopoguerra ad oggi, ha sempre chiesto in sostanza, al di là dei massimi sistemi, il rispetto dei risultati elettorali e governi capaci di durare e di lavorare con efficienza. Giorgia Meloni, anche, si capisce, per la sua storia di destra, non si è mai allontanata, sia quando raccoglieva il 4 per cento dei voti che dopo, dalla battaglia per assicurare all’Italia un potere esecutivo scelto dai cittadini, legittimato, quindi, dal consenso elettorale e non più ostaggio dei ricatti di partiti e consorterie varie. La destra italiana, ieri ed oggi, pensava e pensa ad un tipo di Repubblica presidenziale, ma il premierato contenuto nel disegno di legge concordato in Consiglio dei ministri, non costituisce una sorta di resa o timidezza da parte della premier Meloni e di Fratelli d’Italia perché esso racchiude in ogni caso la sostanza dello storico impegno della destra e del centrodestra a favore di una grande riforma istituzionale mirata a provvedere che anche questa Nazione possa essere governata all’insegna della stabilità e della osservanza verso le scelte degli elettori, e la sostanza conta più della forma.
Il ddl uscito dal Consiglio dei ministri è composto essenzialmente da cinque punti fondamentali, e andiamo a vederli uno per uno. Partiamo dalla elezione diretta del Presidente del Consiglio, da svolgersi assieme al rinnovo delle Camere, alle elezioni politiche per intenderci, che attribuisce maggiore autorevolezza alla figura del premier o della premier, destinata a sottostare più all’interesse nazionale e all’elettorato che ad eventuali diktat di alleati riottosi e poteri più o meno forti. L’attuale maggioranza di Governo è molto coesa, anche se a sinistra si spera ogni giorno in qualche litigio, per esempio, fra la Meloni e Matteo Salvini o Antonio Tajani, ma se la situazione dovesse essere diversa, il chiaro e netto responso delle urne di un anno fa potrebbe cadere sbriciolato dalle liti in qualsiasi istante, con buona pace di quegli elettori che hanno voluto e scelto uno scenario politico preciso.
L’architettura istituzionale di questo Paese non protegge dai dispetti fra partiti, dai personalismi e dai cambi di casacca spinti da opportunismi spiccioli, infatti, ne abbiamo gia’ viste di cotte e di crude, e non deve piu’ accadere che un premier chiaramente voluto dagli italiani debba fare le valigie anzitempo a causa, non della sua incapacita’, bensi’ per sgambetti e trappole tese da compagni di viaggio poco affidabili. Con questa riforma il Presidente del Consiglio diviene una figura capace di guidare l’Italia in maniera molto piu’ salda e di programmare e perseguire un indirizzo politico di medio-lungo periodo, (un primo ministro che gia’ sa di avere dinanzi a se’ un orizzonte temporale limitato, puo’ gestire al massimo gli affari correnti), ma che non intacca le prerogative del Presidente della Repubblica, simbolo della unita’ nazionale. Il disegno di legge prevede altresi’ che il premier eletto dai cittadini sia un parlamentare cosi’ la politica evita di appellarsi al messia tecnico di turno, che solitamente, lo abbiamo visto con Monti e Draghi, non e’ meglio dei pur imperfetti leader di partito.
Il secondo punto riguarda la durata del mandato del numero uno di Palazzo Chigi, che rimane di 5 anni. Il terzo caposaldo della riforma concerne la cosiddetta norma anti-ribaltone, che punta ad impedire, finalmente, che una maggioranza di diverso colore rispetto a quella uscita vincente dalle elezioni, ma magari in crisi, tramite opache operazioni di Palazzo si inserisca al governo pur non essendo voluta dagli italiani.
Il Presidente del Consiglio in carica puo’ essere sostituito soltanto da un elemento della coalizione che lo sostiene, vincitrice delle ultime Politiche, e se anche il premier sostituto dovesse dimettersi, per varie ragioni, prima della fine della legislatura, vi sarebbe una sola via di uscita, ossia lo scioglimento delle Camere e il ricorso ad elezioni anticipate. Questo aspetto importante della riforma sbarra la strada a tutte le degenerazioni del parlamentarismo alle quali abbiamo assistito per troppi anni e vale a dire, gli esecutivi tecnici sorretti da maggioranze arlecchino e l’imbucarsi truffaldino nella stanza dei bottoni di partiti sconfitti alle urne.
Il Partito Democratico ha governato di fatto l’Italia per una decina di anni senza avere mai vinto un’elezione. Cio’ non e’ serio e ne’ tantomeno democratico. Il quarto punto indica un premio di maggioranza al 55 per cento, indispensabile per assicurare la governabilita’. Il quinto ed ultimo pilastro della riforma riguarda lo stop alla nomina di nuovi senatori a vita. Anche in merito a questo tema si va nella giusta direzione perche’ il ruolo del senatore a vita e’ stato completamente stravolto da certa politica.
La figura dei senatori a vita fu pensata per insignire chi si fosse distinto in vari campi e avesse servito la Nazione in modo encomiabile, ma, dopo la “ricompensa” offerta all’ex premier Mario Monti e quei senatori a vita usati per puntellare maggioranze moribonde e diroccate, tale istituto ha perso gran parte del proprio significato. Sembra che il Governo voglia sottoporre la riforma del premierato ad un referendum popolare, e ad alcuni è venuto in mente il suicidio politico di Matteo Renzi del 2016. L’attuale leader di Italia Viva fu travolto dal referendum da lui stesso proposto per l’approvazione della sua riforma del bicameralismo. Non ci sono segnali che Giorgia Meloni possa fare la medesima fine di Renzi. Quest’ultimo, quando lanciò la sua riforma e poi il referendum, si trovava già a livelli di impopolarità molto alti, e gli italiani votarono in primo luogo contro la sua persona più che nel merito di quel tentativo di superamento del bicameralismo perfetto.
Al contrario, la premier Meloni non ha problemi di questo tipo, essendo lei, Fratelli d’Italia, il centrodestra tuttora largamente maggioritari nel Paese in termini di consenso. Inoltre, dopo un anno di governo, la Presidente del Consiglio dimostra di avere imparato, e di non volerli più ripetere ovviamente, dagli errori della politica, anche di centrodestra, degli ultimi trent’anni. Occorrerà senza dubbio spiegare bene l’utilità di una riforma come quella del premierato. Gli italiani sono sempre stati consapevoli dei limiti della democrazia del Belpaese, una delle più instabili e complesse d’Occidente, e vogliono una governabilità efficiente almeno dagli anni Novanta. Tuttavia, visto che la politica ha generato parecchie disillusioni tramite tante promesse non mantenute, oggi i cittadini si emozionano meno nel momento in cui si parla di riforme istituzionali.
Quindi, serve sottolineare come una profonda revisione dell’impianto istituzionale italiano non faccia il bene di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia, bensì di tutta la Nazione, di tutti gli schieramenti in campo e di tutti gli elettori, di destra e di sinistra. Una democrazia nella quale i governi possano completare il loro mandato e lavorare con serenità, senza doversi difendere ogni giorno da agguati e furbizie, fa il bene anche dell’economia e delle istanze sociali. Un premier legittimato dal voto popolare e sorretto da una maggioranza solida può occuparsi meglio dei soldi degli italiani, programmando la propria attività fra necessità urgenti e questioni da affrontare nel medio o lungo periodo. I capi di governo tecnici o passeggeri, (durante la Prima Repubblica si parlava, non a caso, di governi balneari, da tenere in piedi per un’estate), possono permettersi di fare un bel nulla o anche, di fare molto male perché non hanno il cruccio di dover rispondere a degli elettori.