Romania: il voto che non piace (quindi non vale). Il rapporto del Dipartimento di Stato USA smonta la menzogna delle interferenze russe

Era tutto già scritto, bastava il titolo: «Interferenza russa». Un’etichetta magica che in Occidente funziona sempre: la appiccichi a un avversario politico e il gioco è fatto. Stavolta tocca alla Romania, dove il 24 novembre scorso vince al primo turno un certo Călin Georgescu. Uno che, udite udite, non aveva chiesto il permesso a Bruxelles per candidarsi. Percentuale: 22,9%. Sufficiente per far scattare il piano B: la Corte Costituzionale annulla il voto. Motivazione ufficiale: «irregolarità multiple» e una «presunta operazione di disinformazione russa sui social media». Fine della storia? Magari.

Peccato che, a rovinare la sceneggiatura, arrivi il Romania 2024 Human Rights Report del Dipartimento di Stato USA, 17 pagine di referto clinico su come si ammazza la democrazia col sorriso sulle labbra. Gli americani scrivono nero su bianco che «osservatori indipendenti hanno suggerito che la campagna sui social media in questione fosse un’attività elettorale organica di un partito politico rumeno».

Traduzione: nessuna Russia, nessun Putin, nessuna spia col colbacco. Solo gente che faceva campagna per un candidato. Il resto? Fuffa. E infatti il rapporto definisce quella decisione «un’interferenza politica nelle elezioni e una restrizione indebita del discorso politico di natura e gravità senza precedenti».

E così il capro espiatorio Georgescu sparisce dalle schede, e quando si torna a votare nel maggio 2025, l’erede politico George Simion vince il primo turno. Promette di nominare Georgescu premier. Panico. Al ballottaggio, succede di tutto. Non lo dice La Voce del patriota, ma il rapporto OSCE-ODIHR: «alcune procedure chiave sono state condotte a porte chiuse»; «pacchetti di voto postale per entrambe le tornate inviati in anticipo», così si poteva votare al secondo turno prima ancora del primo; censura preventiva online con definizioni creative di “attore politico” che permettevano di cancellare contenuti scomodi; squilibri negli uffici elettorali; copertura mediatica «marcatamente sbilanciata»; e migliaia di account e post rimossi senza spiegazioni.

Insomma, un manuale di come si cucina un’elezione a fuoco lento.

Risultato: vince il candidato gradito al sistema. Quello che non dà fastidio a Bruxelles, alle sue burocrazie e ai suoi paladini della “democrazia europea”. E non vi ricorda niente? In Francia, Marine Le Pen non fa in tempo a salire nei sondaggi che parte la raffica di procedimenti e inchieste.

In Germania, l’AfD viene messa sotto sorveglianza dai servizi segreti interni, roba da film di spionaggio, ma con meno classe. Nei Paesi Bassi, in Austria e altrove, cordoni sanitari e coalizioni Frankenstein pur di lasciare fuori chi non piace al club. Il copione è sempre lo stesso: se vinci senza il bollino blu dell’establishment globalista, la tua vittoria non vale.

Il vicepresidente USA JD Vance, denunciando il declino della democrazia in Europa, l’ha detta così: «stanno ricostruendo un Muro di Berlino simbolico». Non servono carri armati, bastano sentenze, commissioni parlamentari e una manciata di titoli indignati sui giornali giusti.

Poi ci stupiamo se gli Stati Uniti tolgono la Romania dal programma Visa Waiver e parlano di «affronto ai principi democratici». Qui l’unico affronto è a chi crede ancora che in Europa conti il voto, non il veto. Perché quando l’esito delle urne dipende dall’okay dei burocrati, quella non è più democrazia: è teatro. E la commedia, ormai, è sempre la stessa. Una farsa.

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Alessandro Nardone
Alessandro Nardone
Consulente in comunicazione strategica, esperto di branding politico e posizionamento internazionale, è autore di 12 libri. Inviato in tutte le campagne elettorali USA dopo aver fatto il giro del mondo come Alex Anderson, il candidato fake alle presidenziali americane del 2016.

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