Rosario Livatino, conosciuto come il “giudice ragazzino”, nacque a Canicattì nel 1952. Entrato in magistratura nel 1978, dedicò la sua vita alla lotta contro la criminalità organizzata, colpendola nel cuore dei suoi interessi economici. Profondamente credente, visse la giustizia come una missione e una vocazione, unendo al rigore professionale una fede autentica. Fu assassinato dalla Stidda, organizzazione mafiosa siciliana, il 21 settembre 1990 a soli 38 anni. Nel 2021 è stato proclamato Beato, divenendo il primo magistrato a ricevere un simile riconoscimento dalla Chiesa cattolica.
Ad aprire il panel, Francesco Quattrociocchi (Gioventù Nazionale), che introduce l’on. Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare antimafia, accolta da un lungo applauso come “una di casa”, avendo condiviso nel recente passato il percorso militante di Gioventù Nazionale.
Colosimo ricorda come, “nell’immaginario collettivo Livatino fosse considerato “troppo piccolo” per certe battaglie”. Eppure scelse di affrontare la criminalità organizzata colpendola al cuore: i soldi. Poi l’affondo. “Oggi ci sono alcuni soggetti che fanno riapparire il figlio di Riina che pretende anche di evocare chi siano i “veri uomini”. Gli uomini con la U maiuscola sono Rosario Livatino, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.
San Giovanni Paolo II lo definì “martire della giustizia”. A riprendere questo legame tra fede e diritto è il monsignor Vincenzo Paglia, che legge alcune righe del diario di Livatino scritte il 18 luglio 1978, giorno del suo giuramento: “Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione dei miei genitori mi ha impartito esige”. Una testimonianza, spiega, della sua convinzione che la giustizia fosse una vocazione divina.
Il monsignore poi, sul tema della politica, richiama le parole di Paolo VI: “La politica è un’altissima forma di carità”. Ed è proprio in questa prospettiva che invita i partiti e tutti i militanti a riscoprire l’impegno come servizio.
Francesco ricorda l’iniziativa per raccogliere le firme affinché Livatino diventi “patrono dei magistrati”, sostenuta anche dal procuratore generale di Roma, Giuseppe Amato, che ne evidenzia la forza spirituale e morale.
A emergere è un messaggio condiviso: il comportamento di ciascuno deve essere virtuoso e d’esempio per gli altri. Rosario Livatino lo faceva, ed è per questo che deve essere ricordato da credenti e non. Come sottolineò anche Papa Francesco, sapeva fondere fede e lavoro.
Il monsignore aggiunge: “La sua fede era fatta di passione per l’umanità. È la stessa fede che oggi può dare una marcia in più anche alla politica. Oggi dobbiamo resistere ad un virus peggiore persino del Covid, quello dell’individualismo”.
Francesco cita un pensiero dello stesso Livatino: “Alla fine della vita non ci verrà chiesto se eravamo credenti, ma se eravamo credibili”. Da qui la domanda alla Colosimo su come la politica possa recuperare credibilità. Lei risponde: “Bisogna tornare a una politica che non dimentichi da dove è partita, ma sappia sempre dove vuole arrivare. È l’esempio che ci dà ogni giorno il nostro Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Si parte dal basso, e si arriva in alto, ma solo se lo si fa insieme.”
L’insegnamento di Livatino resta luminoso: mentre molti cercano i riflettori, lui lavorò in silenzio; mentre tanti fuggono dalle responsabilità, lui le accolse tutte, fino – purtroppo – al sacrificio estremo.
A chiudere il panel, l’invito di Francesco: “Se agiremo come Livatino, forse non diventeremo Beati, ma sicuramente renderemo l’Italia e il mondo un posto migliore”.