Laura Boldrini e quel difficile e conflittuale rapporto con la questione femminile, costellato di forzate declinazioni al femminile per ogni sostantivo, fatto di stonati ritornelli sul sessismo e la parità di genere, di istanze colorate arcobaleno e richiami ai diritti delle donne. Una vita spesa a brandire il vessillo del femminismo ad ogni piè sospinto, fino all’ultima rovente polemica contro il partito democratico per non aver indicato ministri donne nel nuovo governo, taglienti le sue dichiarazioni “… le donne non devono essere accontentate. Le donne sono un valore aggiunto, sono competenze, sono esperienze. Non è possibile che non vengano considerate per i ruoli di vertice … cioè anche basta!”
Anche basta dice la Boldrini, e infatti basterebbe la metà di quello che predica, ma anche di quello che razzola, perché pare che la senatrice, nei fatti, non sia affatto conseguenziale alle parole.
E’ notizia di oggi che tre ex collaboratrici della senatrice si sarebbero malamente lamentate del comportamento – ad usare un eufemismo – sconveniente tenuto durante lo svolgimento del rapporto di lavoro. Accuse pesantissime: una ex assistente parlamentare racconta che la Boldrini l’avrebbe costretta a mansioni che nulla avevano a che fare con il suo lavoro, chiedendole di pagare anche le bollette personali, oppure di gestire il suo appartamento sfitto a Roma. Amareggiata, dice del lavoro estenuante e sottopagato e del fatto che mai durante la collaborazione con la Boldrini si sia sentita tutelata, né come donna, né come lavoratrice. Sino a quando, finito il lockdown, le avrebbe addirittura negato lo smart working e, avendo un figlio ammalato, sarebbe stata costretta a dare le dimissioni.
Una ex collaboratrice dichiara che la Boldrini dopo averle chiesto di ridimensionare l’orario di lavoro giornaliero, chiedendole però di lavorare anche il sabato, l’avrebbe poi “scaricata” senza corrisponderle 3.000,00 euro di compensi.
E ancora un’altra ex collaboratrice parla di “capricci assurdi”, che portavano la senatrice a chiamarla anche in piena notte se l’albergo che le era stato prenotato risultava a suo dire eccessivamente rumoroso.
Come assomigliano alle storie di mobbing sul lavoro che la Boldrina nazionale, indignata, ha preso ad esempio nei suoi interventi alla Camera, da ultimo, quello del maggio dello scorso anno, quando come relatrice in Assemblea della Legge per la ratifica della convenzione internazionale contro il mobbing, si diceva accorata sostenitrice dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, e chiedeva in aula al Parlamento ed al Governo di adottare “tutte le iniziative necessarie per assicurare, in ogni luogo di lavoro, una tolleranza zero verso fenomeni di violenza e di sfruttamento“. Parole altisonanti per un appello accorato e dal taglio assai teatrale, a cui la Boldrini invero negli anni ci ha abituati.
La paladina del senonoraquandismo però è stata smascherata e se le accuse si dovessero rivelare fondate avrebbe molto da spiegare e da giustificare, dovrà forse far nuovamente ricorso al velo che in guisa di uno slogan pubblicitario indossò durante la sua visita alla Moschea di Roma, senza peraltro ragionare neanche un minuto sul fatto che quel velo sia il simbolo della sottomissione della donna nel mondo islamico. Ebbene sì faccia nuovamente ricorso al velo, pietosamente stendendolo su tutto il volto però, per coprire le vergogne dell’ipocrisia, dell’approssimazione e dell’ambiguità.