A qualche giorno dall’ennesimo sciopero proclamato in Italia, questa volta per il blocco della Global Sumud Flotilla da parte dell’esercito israeliano, vale la pena riflettere un momento su questo istituto.
Il diritto di sciopero rappresenta un principio tutelato direttamente dalla Costituzione italiana, un baluardo per i lavoratori che, però, si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano, come recita l’articolo 40: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.” in particolare la L. 146/1990 e successive modificazioni. Se, da un lato, il Garante ha dichiarato lo sciopero indetto dalla CGIL illegittimo per mancanza di preavviso indicate dalla legge, dall’altro, anche seguendo l’indirizzo indicato tempo fa dalla Corte Costituzionale, però, quest’ultimo potrebbe essere superato per motivazioni legate alla difesa dell’ordine costituzionale o di protesta per gravi eventi lesivi dell’incolumità e della sicurezza dei lavoratori, proprio come vorrebbe invocare Landini nel ricorso contro la decisione del Garante.
Sebbene questa posizione mostri l’infondatezza delle motivazioni addotte dagli organizzatori, in quanto il tentativo di sfondamento di un blocco navale estero, operativo dal 2009 e legittimo ai sensi del diritto internazionale grazie al Rapporto Palmer del 2011 approvato in sede ONU, non ha alcuna attinenza alla tutela della Costituzione italiana o alla sicurezza sul lavoro, il vero punto su cui vale la pena soffermarsi resta la percezione degli scioperi da parte della popolazione italiana e il loro effetto reale.
Lo sciopero, come si diceva, è un diritto dei lavoratori e la cosa è logica poiché rappresenta l’unica vera azione di lotta non violenta possibile da parte di questi e delle loro organizzazioni rappresentative, i sindacati, per portare avanti legittime rivendicazioni. Questo strumento, quindi, deve intendersi come un’extrema ratio, l’ultima carta da giocare quando i tavoli di trattativa raggiungono uno stallo tra le parti e la sua forza deriva proprio dalla sua eccezionalità e dalla partecipazione che l’azione riuscirà a ottenere. La partecipazione, infatti, genera un danno economico condiviso che motiva la ripresa delle trattive, visto che i lavoratori rinunciano al salario per le ore o i giorni impiegati nella manifestazione, mentre le aziende subiscono un calo della produttività fino ad arrivare, nei casi più estremi, al blocco totale dell’attività. Un susseguirsi di scioperi, però, può attenuare questa forza, creando disagi continui anche a chi non sia direttamente interessato alla questione, alimentando il dissenso da parte della popolazione e qui emerge l’importanza di un uso mirato per preservarne l’impatto.
È il caso degli scioperi sui mezzi di trasporto, che da anni coinvolgono tutti coloro che ne facciano uso per andare al lavoro, per recarsi a scuola o anche solo per sbrigare delle faccende personali. Questi momenti spingono, nella migliore delle ipotesi, al congestionamento del traffico e a gravi ritardi sulle tratte invitando chi può a usare mezzi personali, ma questo è forse il minore di tutti i disagi, o addirittura di raggiungere appuntamenti importanti come visite mediche o quant’altro.
Sia chiaro, lo sciopero è e rimane un’azione fondamentale, un diritto come dice la Costituzione stessa, nella difesa delle ragioni dei lavoratori e il suo valore e la sua efficacia risiedono proprio nella capacità di mobilitare le persone e a creare una maggiore consapevolezza da parte dei lavoratori stessi portando, come minimo, un forte invito al dialogo con le controparti ma il suo abuso porta a un risultato completamente opposto.
A tal proposito è stata recentemente diffusa una rilevazione dalla trasmissione Agorà su Rai3 in cui, dall’analisi dell’engagement sui social network, risulta che il 97,5% degli italiani si sia posto in un atteggiamento critico o addirittura contrario rispetto allo sciopero di venerdì 3 ottobre scorso, una tendenza che, però, appare in controtendenza rispetto ai sondaggi effettuati dagli istituti demoscopici sulla questione di Gaza. Anche se il metodo utilizzato, tramite le piattaforme di analytics, non sia realmente rappresentativo e abbia un margine di errore ben superiore a quello di un sondaggio tradizionale, questa percentuale così schiacciante può descrivere un trend maggioritario nella popolazione che non sta indicando il proprio giudizio su quanto accada in Medioriente ma mostra quanto la maggioranza degli italiani sia sempre più orientata verso un uso più selettivo degli scioperi, un orientamento che si trasla immediatamente da quelli a sfondo prevalentemente politico a quelli a sostegno delle rivendicazioni contrattuali, affinché questi ultimi non perdano efficacia quando contino davvero.
A voler ben vedere, l’ultimo di questi scioperi che abbia avuto un riscontro realmente positivo nello sblocco delle trattative è stato, infatti, quello che ha visto protagonista il settore bancario nel 2015, dopo circa 30 anni dall’ultimo proclamato dalle sigle di categoria: è stata proprio la sua eccezionalità a dargli la forza di cui necessitavano i sindacati per rompere lo stallo a cui era giunto il confronto sul rinnovo del CCNL, mentre qual è stato l’effetto degli altri?
Hanno generato dibattito e visibilità, nel migliore dei casi, ma, nel frattempo, si è assistito alla continua erosione della loro forza non impedendo, così, il calo sensibile del valore reale dei salari italiani e a un progressivo abbandono delle organizzazioni sindacali da parte dei lavoratori, eccettuato il predetto settore bancario che tutt’oggi risulta, appunto, la categoria più sindacalizzata nel Paese.
Lo sciopero a sfondo politico, più frequente nei periodi con una maggioranza di governo di centrodestra, è visto, poi, con interesse da una quota sempre minore di italiani per il suo ruolo nel dibattito pubblico, anche se non rappresentativo delle reali necessità o delle rivendicazioni dei lavoratori poiché tende più a una manifestazione di dissenso, quasi per tentare di dare una “spallata” a un governo che non piace, che alla rappresentazione delle necessità delle persone e delle loro giuste preoccupazioni.
Non è questo un j’accuse a una legittima posizione politica e nemmeno un inno alla limitazione delle manifestazioni di piazza, che offrono spazi vitali per l’espressione collettiva, ma solo la constatazione che queste dovrebbero essere organizzate come tali, al di fuori dell’etichetta di sciopero, per preservare l’efficacia di questo strumento quando diventerà realmente necessario.