Per mesi, i media mainstream hanno raccontato una storiella tanto comoda quanto falsa: Donald Trump sarebbe stato succube di Elon Musk, disposto a tutto pur di tenerlo dalla sua parte e ripagarlo del sostegno in campagna elettorale. Lo ripetevano come un mantra: «Trump è il pupazzo di Musk».
Lo dicevano opinionisti, lo scrivevano editorialisti, lo twittavano influencer progressisti e perfino Alexandria Ocasio-Cortez, che per le presidenziali del 2028 ha già coniato lo slogan: «Fighting Oligarchy». Una sinistra che finge di combattere i miliardari… mentre obbedisce al più potente di tutti: George Soros.
Poi è arrivata la realtà, come un macigno. Trump ha tagliato gli incentivi alle auto elettriche contenuti nel Big Beautiful Bill. Musk, che di quegli incentivi si nutre da anni, ha reagito nel modo più prevedibile: con una sfuriata su X, la sua piattaforma. «Questo disegno di legge è un abominio disgustoso. Vergogna a chi l’ha votato», ha scritto Musk, spalancando il sipario su una verità che i media non volevano vedere: non era Trump il servitore di Musk. Era Musk che pensava di poter dettare legge a Trump.
La lite è degenerata in pochi giorni. Giovedì scorso, Musk ha persino dichiarato che Trump avrebbe perso le elezioni senza il suo aiuto, lasciando intendere – tra le righe – che si aspettava un ritorno su investimento.
«Molto deluso da Elon», ha risposto Trump, con la freddezza di chi ha capito tutto:
non puoi guidare una nazione se devi dire sì agli interessi dei tuoi amici.
Ecco allora la verità, nuda e cruda: Trump non è in vendita. Musk non è abituato a sentirsi dire di no.
Ma questa non è solo una rottura personale. È lo scontro frontale tra due visioni del mondo.
Da un lato c’è Trump che, come Giorgia Meloni, crede nella sovranità, nella Nazione, nei confini, nel primato della politica sull’economia. Dall’altro ci sono i democratici americani e i loro cloni europei, inchinati a Soros, che con i suoi fiumi di denaro finanzia campagne, partiti, ong, media, studi legali e piattaforme digitali per realizzare la sua distopia chiamata “open society”: senza confini, senza identità, senza Stato.
E no, non è un caso se quando il Pentagono ha previsto di coinvolgere Musk in un briefing su una possibile guerra con la Cina, Trump sarebbe esploso sclamando: «Che cazzo ci fa lì Elon?».
Perché mentre l’America difende i suoi interessi, Musk costruisce Tesla a Shanghai, vende nel Xinjiang, dipende da Pechino per il 40% della sua filiera, e intanto cerca di influenzare le decisioni della Casa Bianca.
Musk voleva piazzare la sua xAI negli accordi tra USA e Emirati. Voleva che la Federal Aviation Administration adottasse Starlink per il controllo del traffico aereo. Voleva che il governo USA riattivasse i crediti fiscali per Tesla. E quando si è visto dire di no, ha cominciato ad attaccare.
Non da patriota, ma da imprenditore ferito, che arriva a twittare che «Trump è nei file di Epstein». Già, ma se così fosse pensate davvero che i democratici non li avrebbero tirati fuori in campagna elettorale?
I media, intanto, abbandonati gli speciali sull’“oligarchia che controlla Trump”, hanno subito cominciato a sguazzarci, bollando immediatamente la lite come un fallimento di Trump.
Guai a dire la verità, che è evidentissima: Trump ha scelto l’interesse dell’America, non quello di Musk. E questo, in un’epoca in cui la politica è spesso asservita al denaro, potrà anche costare caro, ma non ha prezzo.
Ciò detto, sarebbe disonesto non riconoscere a Elon Musk i meriti storici nella battaglia per la libertà d’espressione. Con l’acquisizione di Twitter – oggi X – e la pubblicazione dei Twitter Files, Musk ha reso un servizio enorme alla verità, smascherando il sistema di censura orchestrato dai Democratici insieme a Big Tech.
Un sistema che mirava a eliminare, silenziare, screditare qualsiasi voce fuori dal pensiero unico della sinistra woke. Ma oggi, Donald Trump è di nuovo presidente, e ha la responsabilità di guidare la sua nazione.
E quando si è trattato di scegliere tra gli interessi di un amico – per quanto meritevole – e quelli del popolo americano, ha dimostrato di non avere alcun dubbio.
La sinistra può continuare a nascondersi dietro slogan patinati, ma l’unica vera lotta all’oligarchia è quella condotta da chi non si inchina mai.
Si chiama patriottismo e si dimostra così, con i fatti.
Ora, cosa accadrà? La butto lì: vuoi vedere che, oltre a dover fare da “ponte” tra l’Europa e gli Stati Uniti a Giorgia Meloni toccherà rimettere le cose a posto tra Donald Trump ed Elon Musk? Certo è, che se c’è qualcuno che può riuscirci, è proprio lei.