«A 6 anni dal #MeToo, la lotta continua. Non è solo denunciare, è cambiare una cultura che normalizza la violenza. La politica deve fare di più.» Così twittava Elly Schlein il 25 ottobre 2023. Parole scolpite nella pietra, da appendere nei corridoi delle università woke, da ripetere come un mantra a ogni convegno femminista. Peccato che, come al solito, si dimentichino di aggiungere la postilla: «a meno che a farlo sia uno dei nostri».
Perché poi arriva Romano Prodi, che davanti alle telecamere, infastidito da una domanda legittima sul Manifesto di Ventotene, afferra per i capelli la giornalista Lavinia Orefici. E allora, tutto cambia. Ogni gesto non conta più, viene contestualizzato. Anzi, depotenziato. Minimizzato. E soprattutto: giustificato.
Le immagini parlano da sole. E anche i compagni, ma per difendere l’indifendibile. Massimo Giannini mostra quanto gli stia a cuore la difesa della categoria dei giornalisti twittando: «la lezione di Romano Prodi ai poveri sicari del giornalismo di regime. Basta provocazioni, serve rispetto per chi ha fatto la storia.» Per Marco Damilano: «Prodi, una vita al servizio del Paese, non merita linciaggi per un battibecco. Il giornalismo dovrebbe guardare al contesto, non al sensazionalismo.» Mentre Gianni Cuperlo ci rivela che: «Prodi non ha tirato capelli, ha fatto un gesto paternalistico.»
Ecco servito il triplo salto mortale carpiato della sinistra: l’uomo che avrebbe dovuto essere travolto dalle critiche per un gesto inaccettabile, viene trasformato in vittima. Una sceneggiatura già vista: quando a sbagliare è uno di loro, parte il carosello delle scuse creative.
Lo stress, l’età, l’ansia, il “non voleva”. Mai, però, la condanna netta. Mai la solidarietà vera alla vittima. E così tutto l’arsenale ideologico del mondo progressista – catcalling, patriarcato, sessismo, cultura dello stupro, micro-aggressioni – viene messo in stand-by. Basta che l’aggressore sia “uno giusto”.
Il paradosso è che quelli che oggi minimizzano sono gli stessi che ieri si strappavano i capelli per molto meno. Monica Cirinnà scriveva: «#MeToo ha dato voce a chi non ne aveva. Ora tocca a noi: leggi contro la violenza, educazione al rispetto. Non si torna indietro.» Nicola Fratoianni pontificava: «#MeToo è un grido che non si spegne. La sinistra deve essere in prima linea contro ogni abuso, senza eccezioni.» Tranne questa. Tranne Prodi. Tranne quando l’abuso parte da sinistra.
Il problema è profondo: non è solo ipocrisia, è la logica marcia del doppio standard. Se un gesto lo compie un avversario politico – magari tacciato di “fascismo” – allora è violenza, vergogna, barbarie. Se invece lo compie un loro leader, scatta la protezione di sistema. Il gesto viene edulcorato, ridimensionato, contestualizzato. Perché, sotto sotto, credono davvero che la loro parte sia moralmente superiore. Che sia diversa. Che sia giustificata, sempre e comunque.
È la stessa logica che sta dietro alla candidatura al Parlamento europeo di Ilaria Salis. Non premiata per meriti o idee, ma usata come simbolo ideologico. Non importa se è finita agli onori delle cronache per aver preso a sprangate chi non la pensa come lei. Per la sinistra, se colpisci un “fascista”, tutto è lecito.
È quella la vera radice del loro pensiero: uccidere un fascista non è reato. Non lo dicono più con quelle parole, ma lo praticano con una costanza inquietante. La violenza non è mai accettabile – tranne quando è la loro. E come se non bastasse, in piena bufera sul caso Prodi, ecco che spunta Dario Franceschini, che propone una legge per imporre ai figli il cognome della madre. Ottimo tempismo. L’ennesimo esempio di comunicazione “wag the dog”: agita il cane, distogli lo sguardo, lancia un osso all’opinione pubblica mentre il tuo leader tira i capelli alle giornaliste.
Donne usate come strumenti di distrazione di massa. Progressismo di facciata, vecchia scuola stalinista. Ma stavolta il giochetto è venuto male. Gli italiani hanno visto. E capito. La sinistra non è il faro dei diritti, è il tempio dei doppi standard. E quel gesto, vile e arrogante, è diventato uno specchio perfetto in cui si riflette la loro vera natura: moralisti col cu… cuore degli altri.