Sergio Ramelli, un nome per la pacificazione nazionale

La sua tragica uccisione ha insegnato il valore della democrazia. Anche per questo è un dovere ricordare

Si avvicina l’anniversario dell’agguato a Sergio Ramelli, durante il quale fu colpito a colpi di chiave inglese da alcuni estremisti di sinistra. Non morì sul colpo, ma dopo una lunga agonia in ospedale. Quasi nell’indifferenza, o forse meglio nella paura dell’opinione pubblica dell’epoca di dare risalto a una vicenda tragica, che però vedeva come vittima un missino, un militante del Fronte della Gioventù, uno macchiato dal peccato originale di essere considerato un fascista, un cittadino di serie B. Quell’episodio scosse la scena politica. Forse sì, forse no. Forse acuì il sentimento di odio di qualcuno nei confronti del mondo della destra. Forse legittimò l’uso della violenza nell’estrema sinistra. Un atto che seguiva molti altri già compiuti e che precedeva il tragico periodo dello stragismo. Fatto sta che episodi come quello di Ramelli hanno lasciato una ferita profonda nella destra italiana, in chi credeva in dei valori di libertà pura, in chi combatteva uno strapotere culturale e numerico che se la prendeva con i più deboli, con i più esposti. Con un ragazzo di diciannove anni, uno studente, vittima perfetta per dimostrare all’Italia che uccidere un fascista non era reato. Anche per questo, ora che la destra ha superato quel cordone sanitario che la estraniava dal gioco politico, ricordare diventa un obbligo, affinché quegli episodi non si ripetano più, onorando quella cicatrice, ricucita a malapena da un processo che per fortuna ha portato a galla (per questa volta) la verità.

Di Ramelli ha dato la sua testimonianza oggi sul Giornale il presidente del Senato, Ignazio La Russa. All’epoca dei fatti era dirigente regionale del Fronte della Gioventù e difese Ramelli e la sua famiglia durante il processo, che si svolse dieci anni dopo. In quegli anni, ha raccontato La Russa, si respirava un clima di odio: “Era come a Belfast – ha detto la seconda carica dello Stato –. Però a Belfast si sapeva che c’era la guerra civile, e tutta la popolazione era coinvolta. Da noi c’era la guerra civile che riguardava 20mila a sinistra e mille a destra, come certificò il rapporto del prefetto Mazza. Tra loro e noi c’era una sproporzione anche di retroterra. A sinistra c’era il potere, il cinema, la cultura. Noi eravamo soli”. Un odio che portava alla violenza. Violenza da una parte e dell’altra, purtroppo. Una più forte e più organizzata, l’altra non meno violenta e di risposta, sempre condannata anche e soprattutto dai leader di destra: era proprio Giorgio Almirante a chiedere “doppia pena di morte per i terroristi di destra”. Una violenza, quella dei gruppi estremisti di destra, che non fu mai negata e che contribuì a esasperare quel contesto.

Ma ricordare quegli episodi, nel rispetto del detto storia magistra vitae, non deve essere mera commemorazione. Può definirsi una memoria attiva. Il monito di La Russa è infatti chiaro: quell’epoca sembra lontana, ma basta un nulla per farla tornare. “Meglio tenere gli occhi aperti”, avverte il presidente del Senato, che al suo insediamento da vicario di Sergio Mattarella, dopo il passaggio di consegne da parte della senatrice più anziana, Liliana Segre, espresse l’intenzione di raggiungere finalmente una “pacificazione nazionale”. Cosa che però, purtroppo, sembra ancora difficile, in un contesto generale in cui chi fa uso della violenza, anche soltanto per il ‘gusto’ di farlo, viene condannato soltanto flebilmente da certa politica, specialmente da quella che ne verrebbe favorita. Ed è ovvio che così facendo, si minimizzano occupazioni sempre più violente delle università e attacchi sempre più frequenti alle forze dell’ordine. Precursori di un’escalation che potrebbe diventare pericolosa.

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