Il 13 ottobre 2025 resterà una data storica. Dopo due anni di guerra, la liberazione dei venti ostaggi israeliani e la scarcerazione di oltre 1.900 detenuti palestinesi hanno segnato l’alba della pace fra Israele e Hamas. A suggellare l’accordo, la firma del “Peace 2025 Summit” a Sharm el-Sheikh, presieduto da Donald Trump e dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, con la partecipazione diretta della premier italiana Giorgia Meloni, del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e dell’emiro del Qatar Tamim bin Hamad al-Thani.
Trump ha parlato di “alba storica di un nuovo Medio Oriente”, rivendicando l’accordo come “la cosa più importante che ho fatto”. L’evento ha avuto una valenza simbolica e strategica insieme: l’inizio della fase due, quella della ricostruzione e del consolidamento politico nella Striscia di Gaza.
Il ruolo dell’Italia: garante e costruttrice di pace
Meloni è arrivata al summit quando la notizia del rilascio degli ostaggi era appena stata confermata. La sua prima dichiarazione, pubblicata da Palazzo Chigi, ha definito il 13 ottobre “una giornata storica”, frutto della determinazione della diplomazia internazionale e della prima fase del piano di pace voluto dagli Stati Uniti.
La premier ha poi aggiunto una frase che ne riassume la postura internazionale:
“La pace si costruisce con i fatti, non con le parole.”
Nel bilaterale con Al-Sisi, Meloni ha ribadito l’impegno dell’Italia a contribuire alla stabilizzazione, ricostruzione e sviluppo della Striscia di Gaza, collegando l’azione italiana al Piano Mattei – il progetto strategico che unisce energia, formazione e agricoltura sostenibile come strumenti di cooperazione euro-mediterranea.
L’Italia ha assunto un ruolo di primo piano nel sostegno al processo di pace, partecipando al vertice di Sharm el-Sheikh accanto ai principali attori regionali e internazionali e confermando la propria disponibilità a contribuire concretamente alla stabilizzazione di Gaza.
Roma coordinerà la missione “Food for Gaza” con Coldiretti, Confagricoltura e Confcooperative, oltre alla possibile apertura di ospedali italiani a Gaza e alla partecipazione di imprese come Webuild alla ricostruzione.
La diplomazia della concretezza
Nel linguaggio della Meloni si coglie una linea di continuità: la diplomazia non come esercizio retorico, ma come strumento operativo. “La pace si costruisce con i fatti” non è solo una formula morale, ma un manifesto politico.
Roma si propone come ponte tra l’Occidente e il mondo arabo, con un approccio pragmatico: dialogare con tutti, mantenendo fermezza sui valori.
Il presidente egiziano Al-Sisi ha espresso “apprezzamento per il ruolo italiano e per lo sviluppo delle relazioni privilegiate fra i due Paesi”, un riconoscimento che colloca l’Italia come interlocutore affidabile in un Mediterraneo in cui Parigi e Berlino appaiono marginali.
La regia americana e l’architettura multilaterale
Il nuovo piano di pace di Trump — dopo gli Accordi di Abramo — segna il ritorno della visione americana classica: negoziare da una posizione di forza e creare alleanze operative più che ideologiche.
La “fase due” annunciata dal presidente riguarda la ricostruzione politica e materiale di Gaza, con un vertice previsto al Cairo per novembre e l’avvio di un Consiglio per la pace a guida congiunta Usa-Egitto, al quale Trump ha invitato Al-Sisi a partecipare.
Il messaggio è chiaro: Washington torna a essere architetto di stabilità, ma chiede agli alleati — Italia in primis — di agire come costruttori locali di fiducia.
Una nuova postura italiana
Il valore politico della presenza di Giorgia Meloni a Sharm el-Sheikh va oltre il cerimoniale. L’Italia non è più semplice osservatore, ma attore sistemico del nuovo equilibrio mediorientale.
La premier siede nello stesso tavolo di Trump, Erdogan, Al-Sisi e l’emiro del Qatar. Non come “voce europea”, ma come voce autonoma dell’Italia, partner credibile di entrambe le sponde del Mediterraneo.
Il gesto di Trump sul palco — “Chi è questa donna?”, ha scherzato rivolgendosi a Meloni — ha avuto un valore più simbolico di quanto possa apparire: un riconoscimento informale del ruolo conquistato da Roma, passata in due anni da spettatore a interlocutore di primo piano nelle grandi crisi globali.
Significato geopolitico: dal Mediterraneo all’Occidente
La pace di Sharm el-Sheikh non è solo un traguardo mediorientale, ma un tassello di un riordino globale in cui l’asse occidentale si ricompone.
Trump riafferma l’egemonia americana, ma in un quadro multilaterale realistico, in cui ogni alleato deve contribuire sul terreno. L’Italia di Meloni risponde con il suo Piano Mattei, ponte naturale fra Europa e Africa, e ora anche architrave mediterraneo del nuovo ordine post-guerra di Gaza.
La diplomazia italiana esce rafforzata: è credibile perché è coerente. Non cede alla neutralità di facciata, ma agisce per costruire la pace con strumenti concreti — energia, sviluppo, sicurezza alimentare, formazione — restituendo all’Occidente quella dimensione di civiltà costruttiva che da tempo sembrava smarrita.
Il giorno di Sharm el-Sheikh segna il ritorno della politica come arte del possibile.
Trump lo definisce “un’alba storica”, Meloni parla di “giornata storica”: due formule che si incontrano nello stesso punto.
Per la prima volta dopo anni, America e Italia camminano nella stessa direzione strategica, condividendo l’idea che pace e sovranità non siano concetti astratti, ma risultati da costruire passo dopo passo.
L’Italia, da “figlia del Mediterraneo”, è oggi madre di una nuova stagione di pace.