Per decenni la drammatica storia degli Italiani dell’Istria e della Dalmazia è stata nascosta agli occhi del mondo.
I giuliano-dalmati furono addirittura accolti in Patria con disprezzo da una certa parte politica, e costretti a vivere il proprio dramma in silenzio per quasi 60 anni. A Bologna, nel febbraio del 1947, un gruppo di comunisti italiani, impugnando bandiere rosse, assaltarono un convoglio di esuli, giunti lì da Ancona, dove erano sbarcati. Il “treno dei fascisti” lo chiamavano gli attivisti rossi perché non potevano che essere tali coloro i quali fuggivano dal comunismo reale di Tito.
La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana aveva preparato cibo e beni di prima necessità per accoglierli ma non servì a nulla: gli attivisti gettarono tutto sui binari, compreso il latte destinato ai bambini. Treno della vergogna lo hanno chiamato i posteri: preso a sassate, il convoglio non riuscì nemmeno a fermarsi. Furono circa 250 mila gli uomini e le donne che lasciarono la propria terra, e con essa i propri beni, i ricordi di una vita, spesso gli amici e i membri della propria famiglia.
Qualcuno non vi fece mai ritorno.
Una sorte ben peggiore toccò a chi rimase al confine orientale. Fin dall’8 settembre 1943 infatti, firmato l’armistizio, i partigiani jugoslavi iniziarono a perpetrare atti di violenza sugli Italiani di Istria e Dalmazia, dando vita a vere e proprie esecuzioni. La loro “riconquista” del territorio che rivendicavano essere jugoslavo puntava a Trieste ma la città non fu mai lasciata a Tito e divenne “territorio libero”, prima di tornare definitivamente italiana nel 1954 a seguito della firma del Memorandum di Londra.
Per decenni è stato raccontato che l’ira del Maresciallo era stata indirizzata solo verso i fascisti, colpevoli di aver “italianizzato” l’Istria e la Dalmazia, terre nelle quali già i Romani e la Repubblica di Venezia avevano dei propri importanti insediamenti (si pensi alle città di Pola, di Spalato e di Ragusa). Eppure, oggi sappiamo che le violenze e la morte non furono risparmiate a nessuno: donne, bambini, preti, oppositori del regime che nulla avevano avuto a che fare con il fascismo.
Quasi ventimila gli italiani torturati, assassinati e gettati nelle foibe per volere di Josip Broz, il Maresciallo Tito, ancora oggi decorato come Cavaliere di Gran croce al merito della Repubblica italiana.
E l’orrore sembra non avere mai fine. Nella giornata del 26 agosto scorso, infatti, un gruppo di speleologi ha rinvenuto i resti di 250 persone in una foiba dell’altopiano carsico del Kočevski rog, in Slovenia. Secondo quanto riportato dall’Unione degli Istriani e ripreso da Adnkronos, tra le vittime ci sarebbero oltre 100 giovani tra i 15 e i 17 anni ed almeno 5 donne, stando a quanto emerso da una analisi antropologica preliminare richiesta dalla Commissione dello Stato per l’individuazione delle fosse comuni. “Nella voragine e lungo i bordi esterni è stata trovata una grande quantità di munizioni, prova questa che le esecuzioni furono eseguite sul posto”, ha dichiarato l’archeologo Uroš Košir, coordinatore del gruppo degli speleologi.
L’Unione degli Istriani ha riportato anche che il responsabile delle indagini di polizia, Pavel Jamnik, ha dichiarato che “incrociando dati e testimonianze sull’attività partigiana in quella zona, la responsabilità dell’eccidio è da attribuire all’OZNA, la polizia segreta jugoslava, e in particolare al suo braccio operativo, il KNOJ (Korpus narodne obrambe Jugoslavije), ovvero il Corpo di difesa popolare della Jugoslavia, costituito da partigiani ed incaricato della sicurezza interna dei territori “liberati” durante la seconda guerra mondiale in Jugoslavia e in seguito il territorio della Jugoslavia comunista”. I più fortunati precipitarono nella fossa profonda circa 14 metri già morti, gli altri perirono dopo una lunga agonia. Sessantotto volte la squadra di speleologi è dovuta scendere nel buio della terra per recuperare le salme, quasi tutti civili. “Oltre ai resti umani”, ha detto Košir alla stampa, “abbiamo ritrovato rosari, immagini sacre, pettini, specchi, cucchiai e circa 400 bottoni”.
C’è chi ancora tenta di negare i massacri delle foibe. C’è chi ancora si oppone ad un processo di necessaria pacificazione nazionale. C’è chi ancora si nasconde dietro ideologie fallite e bugie raccontate troppo a lungo. Eppure la verità è più forte di qualsiasi menzogna e quella Terra tanto amata conserva la memoria di ciò che fu e che nessuno può cancellare. Ricordiamo sempre i nostri fratelli torturati e ammazzati con l’unica colpa di essere italiani perché se non con la giustizia, almeno con la memoria gli si renda onore. Oggi, di certo, è giunto il tempo che quella onorificenza conferita al boia Tito venga ritirata.