Ovviamente non solo faccio il tifo per le aziende italiane, ma da professionista ho lavorato concretamente per sostenere il Made in Italy nel comparto tessile e moda in percorsi di posizionamento nazionale e internazionale. È proprio per questo che oggi, a fronte della polemica esplosa attorno ai dazi annunciati da Donald Trump, sento il dovere di intervenire per ristabilire un minimo di verità e razionalità.
Perché diciamocelo chiaramente: quella in corso sui media mainstream non è una discussione economica, ma una campagna ideologica. L’ennesima. Siamo in presenza di un’ondata di disinformazione alimentata da editoriali fotocopia e dichiarazioni isteriche che hanno un solo scopo: costruire un nemico comodo da additare, nel tentativo di nascondere le responsabilità reali del declino industriale europeo.
Chi conosce davvero Donald Trump sa bene due cose. Primo: è un maestro delle trattative, abituato a usare la leva del confronto per ottenere risultati concreti. Secondo: combatte apertamente l’ideologia globalista che ha svuotato le democrazie occidentali di ogni sovranità, a partire da quella economica.
Riascoltate, se ne avete voglia, il suo discorso alle Nazioni Unite del 24 settembre 2019: lì c’è tutto. C’è la sua visione, c’è la denuncia di un sistema economico squilibrato, c’è la dichiarazione d’intenti di un leader che non accetta che le regole del gioco siano scritte a senso unico da una tecnocrazia sempre più distante dai popoli.
E qui entra in gioco l’Europa che, a distanza di mesi dalla minaccia dei dazi, non è ancora riuscita a elaborare una linea. Né difensiva, né offensiva. Nulla. Il vuoto. Nonostante gli enormi sforzi profusi da Giorgia Meloni per creare le condizioni migliori possibili per il negoziato.
Ma i numeri sono numeri, e allora lasciamo parlare quelli che ho raccolto in questa tabella:
Nel dibattito in corso c’è un gigantesco non detto: i dazi non sono la causa della crisi europea. Ne sono l’effetto. La conseguenza diretta e calcolata di decenni di cedimenti, di trattative perse in partenza, di aperture unilaterali a un mercato – quello cinese – che non ha mai restituito nulla in termini di reciprocità.
Il primo a spalancare le porte a Pechino fu Romano Prodi nel 2001, sostenendo l’ingresso della Cina nel WTO senza chiedere in cambio tutele per il nostro sistema produttivo. Da allora, l’industria europea ha iniziato a perdere colpi su colpi. Basti dire che tra il 2001 e il 2010 abbiamo perso 2 milioni di posti di lavoro manifatturieri a causa dell’invasione cinese. E non finisce qui.
Con Obama prima e Biden poi, l’agenda ESG ha imposto all’Occidente standard sempre più rigidi, talvolta grotteschi, che hanno trasformato la sostenibilità da opportunità in gabbia burocratica. Il risultato? Oltre 255 miliardi di euro all’anno di costi aggiuntivi per le imprese europee. In parallelo, la Cina – priva di questi vincoli – ha potuto produrre a costi inferiori, conquistando il 36% della manifattura globale. Il tutto mentre le nostre PMI arrancavano sotto il peso di normative imposte in nome di un ambientalismo astratto, elitario e autoreferenziale.
E ora che Trump ha deciso di usare i dazi per riequilibrare il tavolo, l’Europa si risveglia improvvisamente “liberista”, dopo anni di protezionismo burocratico autoimposto. Un paradosso tragicomico.
I dazi annunciati da Trump – 30% sull’Unione Europea, fino al 145% sulla Cina – genereranno entrate stimate in 600 miliardi di dollari l’anno per il Tesoro statunitense, che saranno reinvestite per abbattere le tasse sulle imprese locali. L’impatto sul PIL europeo è stimato tra i 200 e i 220 miliardi di euro, ma va detto che si tratta di stime ipotetiche che – come ci auguriamo tutti – per l’Europa dopo le trattative dovranno essere riviste al ribasso.
No, questo editoriale non è un’ode ai dazi: è, semmai, un invito ad affrontare la realtà. I dazi sono uno strumento negoziale, non un dogma. Il vero problema non è Trump, ma un’Europa che ha confuso l’ideologia con la strategia, e che oggi paga lo scotto di un’illusione chiamata globalismo.
E mentre Bruxelles tergiversa, alcuni imprenditori iniziano a muoversi da soli. È il caso della “finestra” di San Marino: poiché il piccolo Stato è fuori dall’Unione Europea, i dazi americani si fermano al 10% anziché al 30%. Risultato? Sempre più aziende – non solo italiane – stanno valutando di aprire lì una sede operativa per gestire l’export verso gli Stati Uniti. Ecco la realtà: chi può si organizza, chi non può si adegua, chi non vuole vedere resta intrappolato in uno schema ideologico che continua a costare miliardi e posti di lavoro.
Le politiche annunciate da Donald Trump non devono essere demonizzate, ma interpretate per ciò che realmente sono: un elettroshock. Quello che serviva all’Unione Europea per prendere atto – finalmente – che la stagione delle follie green, delle tasse ideologiche e del globalismo acefalo è finita. Difendere sul serio le imprese e i lavoratori non significa assecondare la Cina o chi si è arricchito spostando lì la produzione, ma rimettere al centro gli interessi dei popoli europei e delle loro economie reali.
Come ho scritto alcuni giorni fa, confido molto poco in questa Unione Europea. Ma confido moltissimo in Giorgia Meloni, che si conferma ogni giorno di più come una vera leader globale, capace di giocare al tavolo dei grandi con credibilità e visione. Mentre a Bruxelles si fanno audizioni e si stilano report, è lei – non Ursula von der Leyen – l’unica ad avere l’autorevolezza per negoziare condizioni ben più vantaggiose del 30% minacciato da Trump, tutelando concretamente il Made in Italy.
Fare il tifo per le nostre imprese significa esattamente questo: pretendere che questa crisi diventi l’occasione per un cambio di paradigma. Che l’Europa, presa finalmente coscienza del contesto multipolare in cui ci troviamo, scelga di uscire dal torpore e di sposare la nuova rotta americana. Quella che parla il linguaggio della concretezza, riporta a casa lavoro e ricchezza, e smette una volta per tutte di inginocchiarsi al pensiero unico.
E per tornare ancora a Giorgia, è impossibile non sottolineare come oggi emerga in tutta la sua forza e verità l’enorme significato di quel “Make West Great Again” che ha pronunciato durante l’incontro con Trump alla Casa Bianca. Non era uno slogan. Era un segnale. E forse, l’inizio di un nuovo cammino, l’unico che ci consentirà di non morire cinesi.