Quello che abbiamo visto alla Casa Bianca è l’ennesima smentita clamorosa alla narrazione tossica dei media mainstream. Quelli che, ogni giorno, ci ripetono che Donald Trump sarebbe uno squilibrato guerrafondaio, un pericolo per la pace mondiale, il “cattivone” che alimenterebbe i conflitti. La realtà è diametralmente opposta: Trump si è confermato nel suo primo mandato il presidente delle zero guerre, e nel suo “secondo tempo” alla Casa Bianca ha già imboccato la strada per risolvere i disastri epocali lasciati in eredità da Joe Biden.
A proposito di Medio Oriente, non possiamo dimenticare un fatto che i soliti commentatori si guardano bene dal ricordare: nell’estate del 2023 Joe Biden decise di sbloccare 6 miliardi di dollari a favore dell’Iran. Donald Trump lo denunciò subito, spiegando che quei soldi sarebbero finiti nelle mani dei terroristi di Hamas. Bastarono poche settimane per avere la conferma: il 7 ottobre si consumò il massacro che aprì la guerra. Chi oggi si straccia le vesti di fronte al piano di pace di Trump dovrebbe avere l’onestà di riconoscere che la miccia del conflitto l’ha accesa proprio l’amministrazione Biden, non certo il presidente che nel suo primo mandato non ha trascinato l’America in nessuna guerra.
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— Alessandro Nardone (@alenardone) October 9, 2023
Il 17 agosto Trump criticò Biden per aver dato all’Iran 6 miliardi di dollari, affermando che si trattava di un accordo “mortale” e che il pagamento “verrebbe immediatamente utilizzato per scatenare violenze, spargimenti di sangue e caos in tutto il Medio…
Il piano in 20 punti che il presidente americano ha presentato insieme a Benjamin Netanyahu non è un documento astratto, ma una roadmap dettagliata che tiene insieme sicurezza, dignità e sviluppo. Ed è un piano che, guarda caso, ricalca perfettamente ciò che Giorgia Meloni ha auspicato nel suo intervento alle Nazioni Unite: liberazione degli ostaggi e dei prigionieri, ricostruzione delle infrastrutture, esclusione dei terroristi di Hamas da qualsiasi processo politico.
La prima colonna portante è la smilitarizzazione totale di Gaza: niente più tunnel, fabbriche di armi, depositi sotterranei. Chi vorrà convivere pacificamente potrà farlo, chi vorrà lasciare la Striscia avrà un passaggio sicuro, ma nessuno potrà più usare i civili come scudi umani. Per chi depone le armi è prevista perfino l’amnistia, perché la logica non è la vendetta, ma la costruzione di una pace reale. Un approccio che, inutile dirlo, Hamas non può accettare: significherebbe la fine del suo potere.
Accanto al disarmo, c’è la questione umanitaria. Trump ha messo nero su bianco che entro 72 ore dall’accettazione del piano tutti gli ostaggi dovranno essere liberati, vivi o deceduti, e in parallelo Israele rilascerà 250 ergastolani e 1700 detenuti palestinesi, comprese donne e minori arrestati dopo il 7 ottobre. È un passo coraggioso per Israele, ma necessario a ristabilire un minimo di equilibrio. Subito dopo, scatterà l’ingresso di aiuti massicci: cibo, medicine, acqua, elettricità, ospedali. Non gestiti da Hamas, come accaduto in passato, ma da organizzazioni indipendenti – Croce Rossa, Nazioni Unite, agenzie umanitarie – che non rispondono né a Tel Aviv né a Gaza.
Sul piano politico, il cuore del progetto è il “Board of Peace”, un organismo internazionale presieduto dallo stesso Trump, con figure come Tony Blair. Sarà questo board a guidare la ricostruzione, a garantire trasparenza, ad attrarre investimenti. Non si tratta di espropriare i palestinesi della loro sovranità, come dicono i critici, ma di impedire che la solita logica delle fazioni trasformi la ricostruzione in un’altra occasione di corruzione. In parallelo nascerà un comitato tecnico palestinese, apolitico, composto da professionisti, che si occuperà della gestione quotidiana: acqua, luce, strade, ospedali. Non milizie armate, non politici corrotti, ma chi ha le competenze per ridare servizi a un popolo che ne è stato privato per troppo tempo.
Sul fronte economico, Trump propone una vera rivoluzione: la creazione di una zona speciale con tariffe e accessi preferenziali per attrarre capitali e imprese. Non assistenzialismo, ma sviluppo. Un’economia capace di offrire lavoro ai giovani di Gaza, perché il modo migliore per togliere manodopera a Hamas è dare prospettive concrete; è il contrario di quanto fatto finora da chi ha preferito riversare miliardi in aiuti a pioggia che finivano nelle tasche sbagliate.
Centrale è anche la dimensione della sicurezza. Una forza internazionale di stabilizzazione, sostenuta da partner arabi e occidentali, entrerà a Gaza per addestrare una polizia palestinese rinnovata, capace di controllare il territorio e garantire ordine pubblico. In parallelo, Israele manterrà un perimetro di sicurezza fino a quando la Striscia non sarà effettivamente stabilizzata. Una transizione graduale, con obiettivi e tempi chiari, monitorata dagli Stati Uniti e dai garanti regionali.
Un altro aspetto innovativo è la previsione di programmi di riconversione e di buyback delle armi: chi consegnerà il proprio arsenale riceverà compensazioni economiche e percorsi di reinserimento. Una misura concreta per trasformare ex combattenti in cittadini, anziché lasciare che tornino nell’ombra come mine vaganti.
Infine, non manca la dimensione culturale. Il piano prevede un processo di dialogo interreligioso per promuovere tolleranza e convivenza. Un dettaglio? No, perché senza cambiare le narrazioni non ci sarà pace duratura. Bisogna rompere l’odio che per decenni è stato instillato in generazioni di palestinesi contro Israele e contro l’Occidente.
Ecco allora il quadro: Gaza smilitarizzata, ostaggi liberati, infrastrutture ricostruite, economia avviata, polizia locale addestrata, board internazionale a garanzia, Hamas esclusa da ogni ruolo politico, Israele libero di difendersi se il piano sarà respinto. Vent’anni di conferenze internazionali non avevano prodotto nulla di simile. In pochi giorni, il Presidente Americano ha imposto un’agenda chiara, tempi certi, responsabilità definite.
E mentre il Trump presenta un piano dettagliato, con obiettivi misurabili e responsabilità precise, cosa fanno gli altri? L’ONU resta intrappolata nelle sue liturgie inconcludenti, Bruxelles balbetta e la sinistra preferisce organizzare “flottiglie dei pacifinti” che nulla hanno a che vedere con la pace e molto con la propaganda. È questo il punto: c’è chi si limita a sventolare bandierine, e chi, come Trump, scrive un piano concreto per disarmare Hamas, ricostruire Gaza e aprire una prospettiva reale di convivenza.
Per questo il 29 settembre 2025 resterà nella storia non come il giorno dei proclami dei pacifinti, ma come quello in cui Donald Trump ha mostrato al mondo che la pace non si predica: si costruisce, con il coraggio delle decisioni e la forza dei fatti.