Chi oggi si scandalizza per le posizioni di Trump sull’Iran, come se fossero un capriccio estemporaneo, non ha fatto i compiti. Trump non improvvisa. Non l’ha mai fatto. Il 27 aprile 2016, al Mayflower Hotel di Washington, Donald Trump non si limitò a un comizio da campagna elettorale. Pronunciò un discorso scritto che tracciava i contorni della sua dottrina «America First».
Una dichiarazione di guerra al globalismo e all’interventismo molle delle amministrazioni precedenti, con un focus cristallino su un nemico dichiarato: l’Iran. Eppure, i soliti analisti – quelli che si riempiono la bocca di «populismo» e «irresponsabilità» – sembrano non aver mai letto quel discorso. O, più probabilmente, lo ignorano di proposito, perché ammettere che Trump aveva una visione significherebbe smontare la loro stessa narrazione.
Quel giorno, Trump non usò ipocrisie diplomatiche ma, al contrario, disse che: «una delle più grandi minacce alla sicurezza che affrontano oggi le nazioni amanti della pace è il regime repressivo in Iran». E non si fermò lì. «Non solo l’Iran è il principale sponsor statale mondiale del terrorismo, ma i leader iraniani stanno alimentando le tragiche guerre sia in Siria che in Yemen», inchiodando Teheran alle sue responsabilità.
Sul nucleare, fu netto: «nel frattempo, il regime sta sperperando la ricchezza e il futuro della nazione in una ricerca fanatica di armi nucleari e dei mezzi per consegnarle. Non possiamo permettere che ciò accada mai». L’accordo nucleare iraniano (JCPOA), firmato da Obama, era per lui una resa mascherata: «un accordo che non permetteva l’ispezione dei siti importanti e non copriva i missili balistici».
Non parlò di ritiro immediato – non era ancora presidente – ma quelle parole erano un contratto con gli americani: se eletto, avrebbe agito. E così fece.
Da presidente, Trump trasformò la retorica del 2016 in fatti concreti. L’8 maggio 2018 ritirò gli Stati Uniti dal JCPOA, definendolo «uno dei peggiori accordi mai firmati». Reimpose sanzioni che colpirono al cuore Teheran: il PIL iraniano crollò del 6% nel 2019, le esportazioni di petrolio passarono da 2,7 milioni di barili al giorno nel 2018 a meno di 300.000 nel 2020 (dati International Energy Agency), e il rial perse l’80% del suo valore dopo l’esclusione delle banche iraniane dal sistema SWIFT.
Nel 2020, mediò gli Accordi di Abramo, unendo Israele, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco in un fronte anti-iraniano che spezzò l’asse di Teheran nella regione. E il 3 gennaio 2020 ordinò l’eliminazione di Qasem Soleimani, capo delle Forze Quds, l’uomo dietro l’espansionismo iraniano in Siria, Yemen e oltre. «Abbiamo agito per prevenire attacchi imminenti contro gli americani», disse, mandando un messaggio inequivocabile: l’America non avrebbe più chiuso gli occhi.
Oggi, dopo la disastrosa parentesi della Presidenza Biden – segnata da ambiguità, debolezza strategica e concessioni unilaterali – il Medio Oriente è una polveriera. E le ultime ore segnano un punto di svolta. Israele ha lanciato una campagna aerea senza precedenti contro l’Iran, colpendo siti nucleari come Natanz, il quartier generale del Ministero della Difesa a Teheran e infrastrutture petrolifere, mentre l’Iran risponde con ondate di missili su Tel Aviv e Haifa.
L’uccisione di sei alti comandanti iraniani, tra cui Hossein Salami dell’IRGC e Ali Shamkhani, negoziatore nucleare, ha decapitato la catena di comando di Teheran. Il regime, sotto pressione interna e internazionale, sembra vacillare: fonti riportano che l’Iran sarebbe «praticamente al tavolo delle trattative», con Trump che chiede la sua «resa incondizionata» e avverte che l’America risponderà con «forza schiacciante» a qualsiasi attacco contro basi USA. Netanyahu, dal canto suo, ha dichiarato che Israele colpirà «ogni sito e ogni obiettivo del regime degli ayatollah», senza escludere che il conflitto possa portare al collasso del regime stesso.
Questo scontro non è nato ieri. È la logica prosecuzione di ciò che Trump disse nel 2016: «dobbiamo sviluppare una strategia a lungo termine per fermare l’espansione dell’Iran e del terrorismo che esso sostiene», e ancora: «l’America deve essere pronta a lasciare che i cattivi accordi falliscano». Il JCPOA era uno di quelli, e Trump lo fece fallire. Il suo sostegno a Israele, ribadito con forza in queste ore – con un messaggio che invita Teheran a evacuare e definisce il leader supremo Khamenei un «obiettivo facile» – non è una trovata dell’ultimo minuto.
È la continuazione della sua visione: un’America che non tollera regimi che cantano «morte all’America» e che sostiene alleati come Israele contro la minaccia iraniana. «Non possiamo permettere che un regime che canta “Morte all’America” ottenga le armi più pericolose del mondo», disse nel 2016. E oggi, con l’Iran indebolito da anni di sanzioni e attacchi mirati, quel monito sembra più attuale che mai.
Chi si strappa i capelli per questo sostegno finge di non capire. La politica di Trump ha rafforzato Israele e i suoi alleati arabi, con gli Accordi di Abramo che restano un argine all’influenza iraniana. Le sanzioni hanno messo in ginocchio l’economia di Teheran, alimentando proteste interne che oggi, con il regime sotto attacco, potrebbero esplodere.
L’eliminazione di Soleimani ha decapitato una rete terroristica che altrimenti avrebbe coordinato una risposta più efficace. E gli attacchi israeliani di queste ore, che colpiscono infrastrutture critiche e leader militari, stanno portando il regime degli ayatollah al punto di rottura.
Eppure, i soliti commentatori – quelli che non hanno mai letto una riga del discorso del Mayflower – gridano al «populismo» o all’«irresponsabilità», e dicono sciocchezze come «dopo sei mesi non è ancora riuscito a fare la pace». Come se lasciare che Teheran armasse indisturbata Hezbollah, Hamas e i suoi proxy fosse una ricetta per la pace. Come se ignorare un regime che minaccia l’Occidente fosse una strategia.
Il vero scandalo non è Trump. È l’ipocrisia di chi lo dipinge come un improvvisatore senza visione. Le sue parole del 2016 non erano slogan, ma un piano. I fatti – dal ritiro dal JCPOA agli Accordi di Abramo, dall’uccisione di Soleimani al sostegno a Israele in queste ore drammatiche – lo dimostrano.
Chi si indigna, o è disinformato o, più probabilmente, in malafede. Politici, giornalisti, analisti: tutti complici di una narrazione che distorce la realtà. Perché ammettere che Trump aveva visto lungo sull’Iran – un regime che destabilizza il Medio Oriente e minaccia l’Occidente – significherebbe smontare anni di propaganda.
Rileggete il discorso del 2016. Guardate cosa ha fatto tra il 2017 e il 2021. Confrontatelo con il caos di oggi. La coerenza di Trump non è un’opinione. È un fatto. E chi lo nega non merita di essere preso sul serio.