Riflettendo sul rapporto tra oriente e occidente, Ernst Jünger scriveva: «con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull’antico palcoscenico e recitano l’antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena».
Se il nostro sguardo è dunque concentrato soprattutto sullo scontro bellico, non si può, in termini culturali, che constatare che le guerre Russia-Ucraina e Hamas-Israele sono due facce di una medesima medaglia.
Ucraina e Israele sono Stati di frontiera, quella frontiera dell’occidente che fa da confine con due giganti molto diversi tra loro, ma accomunati da una radicata attitudine anti-libertaria e dall’atavico risentimento verso l’occidente. Ed è proprio ai confini del nostro mondo che torna a divampare la lotta tra l’occidente della libertà e l’oriente del totalitarismo, teocratico o meno che sia. Quel nodo oriente-occidente che per Jünger era una polarità archetipica. L’opposizione perdurante tra la potente forza del sottosuolo e la sottile luce che persiste, tra dispotismo e libertà, arbitrio e diritto. Una polarità che torna e ritorna nel corso della storia e che contraddistingue l’umanità intera e ogni singolo uomo.
«La Russia non si è mai accontentata di sventure mediocri»
Dunque ci siamo, di nuovo, tanto in Ucraina quanto in Israele.
La tendenza metastorica della Russia si trova tutta nella ineguagliabile e profetica definizione offerta molti anni fa da Emil Cioran: «La Russia non si è mai accontentata di sventure mediocri. E così sarà anche in avvenire. Essa si schiaccerà sull’Europa per fatalità fisica, per l’automatismo della sua massa, per la sua vitalità sovrabbondante e morbosa così propizia alla generazione di un impero (…), per quella sua salute, piena di imprevisti, di orrore e di enigmi, posta al servizio di un’idea messianica, rudimentale e prefigurazione di conquiste. Quando gli slavofili sostenevano che la Russia doveva salvare il mondo, adoperavano un eufemismo: non si salva il mondo senza dominarlo… Con i suoi dieci secoli di terrore, di tenebre e di promesse, essa era più adatta di qualunque altra nazione ad accordarsi col lato notturno del momento storico che attraversiamo. L’apocalisse le si adatta a meraviglia (…)»
Quanto all’apocalisse, per Hamas e la Jihad islamica, invece, si può pacificamente sostenere che se solo ne avessero la possibilità, di noi occidentali resterebbe qualche brandello. Le immagini raccapriccianti di questi giorni, che amplificano quanto già visto al Bataclan ma non solo, testimoniano un odio viscerale e terribilmente personale. Tanto più incontrollato quanto più legato ai principi del radicalismo, con la sua apoteosi dell’arbitrio e del dispotismo. E con il fatale aggancio con le profondità più irrazionali dell’essere umano.
La crisi culturale americana ha facilitato la verve bellica tanto della Russia quanto di Hamas, ne ha in pratica preparato il terreno. La forza propulsiva americana si è ridotta enormemente negli ultimi anni e questa conclamata debolezza ha facilitato l’affermazione dei falchi russi e di quelli della Striscia di Gaza. Ha creato le condizioni per l’effettuarsi dei raid militari e l’innescarsi dei conflitti su larga scala. Una spaccatura culturale analoga negli Stati Uniti si vide soltanto negli anni che precedettero la guerra di secessione e per alcuni versi vi sono punti in comune, certamente rapportati ai tempi, ma simili quanto alla predisposizione psicologica degli attori.
La crisi culturale degli USA, non più capace di attrarre sogni di riscatto e speranze di felicità per milioni di persone, favorisce l’innalzamento dello scontro a livello planetario.
Da una parte oggi c’è l’America delle grandi città, del globalismo, delle nuove frontiere del diritto individuale. Gli States che tutti noi conosciamo. Ma dall’altra parte c’è un’America ugualmente radicata. L’America dei grandi spazi e delle piccole comunità, degli sceriffi ribelli che si associano tra loro, degli allevatori e degli agricoltori, del profondo Sud ma anche dell’Alaska conservatore.
L’America che ha subito una enorme pressione culturale negli ultimi decenni ma che, tanto per fare un esempio, ad agosto è stata capace di far balzare in vetta alla Billboard Hot 100, la principale classifica musicale americana, un certo Oliver Antony proveniente dai Monti Apalachi, fino a quel momento cantante sconosciuto con la sua chitarra e la t-shirt con l’effige di una vacca, per avere scritto una canzone anti-sistema diventata presto un inno per la destra. Per la cronaca, la canzone, dal titolo Rich Men North of Richmond (dove “north of Richmond” indica Washington) in una sola settimana di agosto ha raccolto 17,5 milioni di streaming, 147mila download e 30 milioni di visualizzazioni su YouTube.
Comunque la si pensi sul ruolo degli Stati Uniti dalla seconda Guerra Mondiale in poi, è indubbio che la crisi culturale degli USA, non più capace di attrarre sogni di riscatto e speranze di felicità per milioni di persone, favorisce l’innalzamento dello scontro a livello planetario.
Ad aggravare la posizione europea c’è la crisi della chiesa cattolica, che sembra non offrire più la forza della verità e della persuasione quali baluardo di vita e di civiltà.
Non resta che l’Europa? L’Europa, in realtà, sembra prigioniera della propria, enorme civiltà. Il semplice buon senso che ha fatto andare avanti il mondo per migliaia di anni viene accostato a modi di pensare reazionari, mentre l’iperbole del diritto individuale ha raggiunto dimensioni para-religiose.
Qualche anno fa fui sconcertato nel vedere su un giornale la foto, tratta da un video dell’Isis, di un bambino di circa dieci anni che sparava in testa a un prigioniero. Lo sconcerto non giungeva solo dal fatto in sé, evidentemente terribile, ma dalla decisione della redazione di offuscare il volto del bambino, a tutela del minore. L’Isis mette in mano a un bimbo una pistola per uccidere un prigioniero e noi abbiamo cura di usare photoshop per appannargli il volto. Come si potrà mai vincere? Viene in mente il colonello Kurtz, il Marlon Brando della pellicola sulla decadenza occidentale, Apocalypse Now, e i motivi del suo crollo psichico di fronte alla ineluttabilità della fine, la nostra fine.
Sono i giovani Stati di frontiera che si stanno facendo carico di salvare il nostro vecchio mondo.
Tornando all’Europa, ormai da tempo immemore non offre la vitalità necessaria, prima ancora della solidità politica, a condurre l’occidente. Ma ad aggravare la posizione europea c’è la crisi della chiesa cattolica, che sembra non offrire più la forza della verità e della persuasione quali baluardo di vita e di civiltà. Tutto ciò, mentre l’imprinting culturale nei confronti delle ex colonie si è col tempo dissolto, portando inevitabilmente lo scontro ai confini dell’occidente.
Ci sono speranze? Fortunatamente per tutti noi, Israele e Ucraina sono Stati giovani, abituati a essere “di frontiera”, consapevoli che per sopravvivere hanno bisogno di lottare. E sono armati di eserciti efficienti. La capacità di far fronte alle avversità è direttamente proporzionale agli stermini (la shoah ebraica e l’holodomor ucraino) che ne hanno contraddistinto la storia e dai quali sono incredibilmente sopravvissuti, imprimendosi indelebilmente nel tessuto psicologico e culturale del paese. Popoli con radici profonde che reagiscono alla paura con la forza e alla prevaricazione con la tenuta psicologica individuale e collettiva. Patrie nelle quali la popolazione sostiene le forze armate con affetto concreto e partecipazione. E che possiede una classe dirigente capace di mettere da parte vecchi rancori e trovare l’unità necessaria, culturale prima che politica, a salvare il paese dal baratro.
Il sonno dell’occidente, dunque, genera mostri e conflitti. E sono i giovani Stati di frontiera che si stanno facendo carico di salvare il nostro vecchio mondo. A loro la nostra solidarietà e, spero, ogni possibile aiuto.
Grazie Fabrizio per la lucida ed appassionata analisi, con il cuore e con la mente.
Mi unisco idealmente a te ed a tutti coloro che intendono difendere e far crescere la cultura occidentale ed i valori di libertà giustizia e vero progresso che ci sono propri.
con affetto
Alessandro